In occasione della scomparsa di Giulia Maria Crespi, che è stata la fondatrice del FAI (Fondo Ambiente Italiano) e tante altre cose, proponiamo questo scritto di Giovanni Agosti, letto dall’autore il 5 novembre 2018 al Pier Lombardo di Milano nel corso della presentazione del libro della Crespi «Le storie di Anna, la bambina che non diceva mai bugie», pubblicato – con illustrazioni della nipote Sofia Paravicini – dalla casa editrice Salani (pp. 88, euro 18,00). Un libro di fiabe dove, sottolinea Agosti, «il linguaggio privato degli affetti, anche di quelli più personali, punta dritto, proprio come avviene nelle favole, a moralità generali». Per inquadrare la parabola, abbastanza unica nel Novecento italiano, della grande-borghese Crespi, votatasi alla difesa della natura e del patrimonio culturale, si può leggere la sua autobiografia «Il mio filo rosso. Il “Corriere” e altre storie della mia vita» (Einaudi, 2015).

Un’illustrazione di Sofia Paravicini per il libro di fiabe di Giulia Maria Crespi ,[object Object], (Salani, 2018)

 

Non sono mai stato alla Zelata, il paesino – una frazione del Comune di Bereguardo, in Provincia di Pavia – «in un’ansa del fiume Ticino, tra antichi boschi che costeggiano le campagne dove viene coltivato un riso prezioso», come suona l’attacco del volume che si presenta stasera. Ma ho visto molte volte, moltissime volte, Teorema di Pier Paolo Pasolini, il film del 1968. La scena in cui l’Ospite, Terence Stamp, seduce Silvana Mangano, moglie di un ricco industriale, si svolge proprio tra i boschi della Zelata, in un edificio fantasioso – quasi una palafitta, la Casa del Quac – costruito pochi anni prima dal marito di Giulia Maria Crespi, l’architetto e partigiano Guglielmo Mozzoni. Quella struttura sospesa nasceva proprio dalla necessità di fare fronte alle frequenti esondazioni del Ticino.
Fuori dai fotogrammi incantati di quel film religioso e impietoso nei confronti della borghesia che rappresentava senza sconti e senza nostalgie, la Casa del Quac sta ad aprire, tinta di rosa e di verde, questo libro di fiabe, scritto dalla proprietaria dell’edificio, una persona che ha ampiamente superato i novant’anni, e illustrato da sua nipote, Sofia Paravicini, che ne ha poco più di venticinque.
Non conosco abbastanza le sfaccettature del mondo dell’illustrazione di oggi, che richiama così tanto la creatività dei più giovani in fuga da altre forme espressive, evidentemente avvertite come inutili, per essere capace di decifrare i punti di riferimento di queste immagini, antiche e nuove a un tempo. Posso cogliere, e apprezzare però, il modo con cui si mettono in rapporto con il testo e la scelta, così azzeccata, di pubblicare questa raccolta presso un marchio, come Salani, tanto rilevante per la storia dell’editoria rivolta ai bambini.
E poi – percorrendo rapidamente il sito di Sofia – ecco le geometrie di Busby Berkeley e una manciata di omaggi a Wes Anderson. Se non sbaglio, un sapore alla Gnoli che si avverte negli oggetti inanimati e, sul fondo, qualche ombra surrealista, tra animali giganti e ricordi del Capitano Nemo e un filo di Fornasetti, a dichiarare la provenienza geografica dell’autrice, nonostante la formazione londinese. Insomma un attraversamento del Novecento con gli occhi stupefatti di chi è giovane oggi e non ha paura dei travestimenti. E forse non sa più nemmeno, ragionevolmente, che cosa è stato, nel bene o nel male, il Postmoderno.
La poesia scatta proprio dal contrasto tra questo presente, così aggiornato e quasi, si direbbe, alla moda, e i valori profondi che comunicano i testi. Non che alla nonna, s’intende, manchino le interferenze figurative, anche di prim’ordine. Il mio filo rosso, uscito da Einaudi nel 2015, permetteva di inanellare occasioni: prima, negli anni Quaranta, Manzù e Aldo Carpi, poi, passata la guerra, Morandi, Guttuso e Burri, ma anche Schifano, Tano Festa e Ceroli, avendo sullo sfondo la bellissima raccolta allestita dal padre Aldo nella casa di corso Venezia. Ma un «Giulia Maria Crespi e il campo figurativo» resta da scrivere con le dovute ricostruzioni dei contesti famigliari, in una storia che discende dalla casa di via Borgonuovo di Cristoforo Benigno Crespi e dal volume, anno 1900, di Adolfo Venturi, attraverso l’assegnazione di specifiche responsabilità e, talvolta, primogeniture, cercando di non perdersi nel dedalo delle dispersioni e delle parentele. Che dire dell’amatissimo zio Vittorio Fossati Bellani e delle sue eccentriche curiosità, tra grappoli di San Sebastiani e inevitabili Filippo De Pisis? Ne uscirebbe una pagina non trascurabile della storia della cultura artistica italiana.
La dea Fernanda Wittgens
La stessa autrice è più volte tornata – non solo nel libro del 2015, archiviato un po’ troppo in fretta – sul ruolo importante rivestito nella sua vita da una storica dell’arte come Fernanda Wittgens, «bionda, possente e bella come una Brunilde wagneriana» o una «dea omerica» (sono gli stessi riferimenti, curiosamente, che adopera Antonio Greppi, il primo sindaco di Milano liberata, per definirla): anche da lei, nata nel 1903 e morta nel 1957 (era più giovane di chi vi sta parlando), deriva quell’intrico tra senso civile e misticismo, quel «sogno umanistico», che attraversa tutta la lunga vita di Giulia Maria Crespi e la rende un personaggio unico nell’Italia di oggi, attraverso – soprattutto, ma non solo – l’utopia concreta del Fondo per l’Ambiente Italiano.
A un’Italia da salvare, come si chiamava la mostra del 1967 inventata con Renato Bazzoni, si rivolgono le favole di oggi, ingenue solo all’apparenza. Nel sottofinale del libro del 2015, che è stato presentato proprio qui al Pierlombardo, «l’amata casa del Quac» appariva così: «è diventata silenziosa, vuota e anche un po’ triste. Ma la nonna aspetta e in primavera attende con speranza il ritorno delle rondini e degli amati nipoti che talvolta fermano il loro volo per pigolare qualche recente episodio da loro vissuto. Tutti seduti sui cuscinoni gialli che guardano verso il Ticino nascosto dai boschi». E già lì si presagiva il libro di ora, il libro della «Nonna Bau che inventava storie fatate» e anche lì non mancava il ricordo di Pasolini: «Mi raccomando, guardate durante l’inverno i fiori del nocciolo che, come mi diceva Pasolini, già fiorisce nel freddo per annunciare la speranza. Perché in questa, nipoti miei, voi dovete credere. Avere speranza sempre, come sempre ci raccontano i noccioli». E sì che il 9 dicembre 1968 Giulia Maria aveva scritto al poeta: «per me il Natale è una cosa molto importante. Noi lo passeremo alla Zelata, ed è così bello lasciare la città piena di frenesia ed arrivare nella pace semplice di quelle campagne» e di lì la richiesta di scrivere per i suoi bambini, uno dei quali è il padre di Sofia, «alcune parole che parlino del Natale», «che non vuole dire niente se non c’è desiderio di pace e di amore nel mondo. Non ho trovato nulla di questo da nessuna parte, ma so che Lei lo potrebbe scrivere, infondendo nelle parole quel senso di poesia che smuove i cuori. Mi fa questo favore?… Per piacere non mi dica di no». E l’indaffaratissimo Pasolini, in partenza per l’Africa, «la mia Zelata» (così chiama la Tanzania), scrive a Giulia Maria Crespi una lunghissima lettera dove risuona un elogio del sacerdote Camillo Torres, il suo eroe del momento, «che ha parlato della pace facendo la guerra», caduto in combattimento nel 1966.
Un re mago e il suo servo
Il documento epistolare è un capolavoro di chiarezza, misconosciuto e disperso nell’immenso corpus pasoliniano, dove si insiste sull’importanza delle opere, ancora più che sulla fede: «Ogni nostra vita, in quanto linguaggio dell’azione, o semplicemente, della presenza fisica è un “esempio”: in quanto tale, ogni nostra vita è un’opera: con il suo stile e la sua morale». E qui racconta, alla «cara Giulia Maria», la favola di un re mago e del suo servo, «da far interpretare alla coppia di Uccellacci e uccellini, Totò e Ninetto», che seguono la stella cometa ma nel corso del lunghissimo viaggio disperdono i loro doni e arrivano a mani vuote davanti alla stalla vuota, senza nulla, «neanche la speranza»; Gesù ormai è cresciuto e forse è già morto sulla Croce. «Lì, in quella vecchia stalla, non c’è che l’inutile luce della stella». Il vecchio mago muore, il suo servo si trasforma in un angelo che lo prende per mano e lo porta in Cielo. E Pasolini conclude: «Mi dispiace di non aver avuto il tempo di scrivere qualcosa che si presentasse come degno di esser letto dai Suoi figli (che hanno un’aria molto adulta… e critica), e, colmo della fortuna, di averLe mandato solo un rozzo abbozzo di quello che avrei potuto fare. Spero comunque che tra i suoi ospiti, nella gelata Zelata di Natale (cui auguro il suo sole paradisiaco e la sua grazia romanica) ci sia un intenditore di cose di linguistica, che spieghi ai suoi figli il significato di parole come “semiologia”, “codice” o “messaggio”, o anche qualcuno che mastichi di teologia, che spieghi loro il dilemma Opere-Fede».
Un divertimento di corte
A mezzo secolo di distanza Nonna Bau, ma anche lo zio Aldo e la zia Vannozzina e cuginetti e cuginette e tate e guardiani, compaiono – senza mediazioni di sorta e quasi come in un divertimento di corte – dentro queste Storie di Anna, la bambina che non diceva mai le bugie, dove il linguaggio privato degli affetti, anche di quelli più personali, punta dritto, proprio come avviene nelle favole, a moralità generali. Senza tante interferenze letterarie, che sarebbe stato pur facile richiamare: per esempio gli animali della fantascienza ecologica del Pianeta irritabile di Paolo Volponi, una scimmia, un elefante e un’oca, tutti rigorosamente dotati di parola. Oppure, quando Giulia Maria Crespi parla di cicale «che ballano il rap», verrebbero da rievocare i versi così felici, fatti di sarabande naturali, ma senza preoccupazioni ecologiste, di Toti Scialoja, come, quasi degli scioglilingua: «La vespa vedova veste di crespo,/ esce al crepuscolo, sparisce al vespro» oppure «Questa lepre, esperta arpista,/ suona Listz senza una svista/ ma sparisce dalla vista/ non appena grido: “Bis!”». Accanto al cast degli animali, più o meno umanizzati nelle loro reazioni e sentimenti, in queste fiabe ci sono le fate buone e quelle solo apparentemente cattive, e i nani burloni e i giganti, con i draghi addomesticati («come noi uomini teniamo vicini i cani, per amicizia, per compagnia»). Tutti i racconti si distendono in una topografia, privata ma assoluta, che dalle lanche del Ticino interseca la Milano di corso Venezia, con il giardino fatato, fino ad arrivare alla Sardegna del Monte Ortobene e di Cala di Trana, il tratto di costa acquistato, e salvato, da Giulia Maria Crespi, dopo una scoperta che risale alla fine degli anni Cinquanta e che è mediata da Tatiana Franchetti, la moglie di Cy Twombly: l’«evento più epocale» della sua vita.
Le fiabe di questo volume sono incorniciate tra due grandi feste, che – pur popolate di bestie e trasfigurate – stanno a indicare tappe precise, non solo della vita di Giulia Maria, ma più in generale della tutela del paesaggio italiano: la prima per celebrare il quarantesimo anniversario della fondazione del Parco del Ticino, «una data memorabile, una grande rivoluzione. L’inizio dell’Era zelatesca, che avrebbe cambiato la storia del mondo. O almeno quella di Zelata!», e la seconda per celebrare, un 24 giugno, il cinquantesimo anniversario dell’acquisto, appunto, di Cala di Trana.
Lo specchio deformato
È come se il reale venisse mostrato in uno specchio deformato, dove la fiaba diventa un espediente: i travestimenti talvolta sono minimi, qualche altra bisogna scavare ma solo un po’: dal «consorte poco mondano» al «governatore della Regione Piacione». E l’ingenuità – l’ha scritto bene Giuseppe Frangi recensendo Il mio filo rosso – è «un po’ vera e un po’ calcolata»: qui, se si può, tra le fiabe, l’osservazione è ancora più giusta. E allora vengono alla ribalta, mescolando i nomi comuni ai nomi propri, la strenua difesa delle api e persino delle zanzare, in nome di una «ben tutelata biodiversità», il rispetto per i volatili «extracomunitari», le passioni per l’Odissea, per Chopin e per Wagner, e persino per i «croccantini extravitaminici», ma anche l’attacco contro i diserbanti che eliminano le rane, il micidiale Roundup, l’erbicida più venduto nel mondo, che causa malformazioni genetiche in questi anfibi. Ci scappa pure un affondo contro «i turisti milanesi che facevano il picnic sulle rive del Ticino, accendendo fuochi e mettendo in pericolo la vita del bosco». Quanti richiami e quanti rimproveri agli uomini «che non pensano al domani, ma soltanto all’oggi», in mezzo a un’atmosfera irrimediabilmente «surriscaldata».
Senza sostanze chimiche
L’inno alla «gioia di una vita senza sostanze chimiche» o il richiamo al rispetto per i tempi e le stagioni del Grande Creatore di tutte le cose» mi hanno ricordato quando, qualche anno fa, alla commemorazione di Gae Aulenti alla Scala, mentre gli oratori elencavano i meriti dell’architetto e della scenografa, così legata anche alla storia del Fai, Giulia Maria Crespi additava ai presenti come il messaggio vero della Gae fosse piuttosto un «no lifting, no botulino». Questi interventi sui corpi non le sembravano diversi dalla battaglia «contro veleni e additivi chimici» per «ottenere maggiori raccolti» dalla terra. Di qui la propaganda dell’agricoltura biodinamica, come quella che si pratica alle Cascine Orsine, che «è un modo naturale di gestire la campagna, le coltivazioni, i campi. La terra e la vita che cresce in lei e le si sviluppa intorno sono una cosa sola e, se non vengono maltrattate dalle sostanze chimiche, vivono in equilibrio e in armonia con l’intero Creato e le sue creature».
Un filo steineriano, quindi antroposofico, percorre, non troppo sottilmente e senza paura delle lettere maiuscole, queste pagine, popolate di angeli e arcangeli e angiolini custodi: e quindi, sincretisticamente, il Grande Mondo Spirituale, la Divina Armonia, la Musica delle Sfere, gli Spiriti dell’Aria e dell’Acqua e quelli del Tempo, «che abitano lontano, lontano, sopra il Monte Rosa», ma anche gli Asura (gli spiriti del male, cioè).
Più volte, leggendo queste pagine e guardando le illustrazioni, mi è venuto in mente il finale di Che cosa sono le nuvole? di Pasolini, un breve film del 1968, lo stesso anno di Teorema per di più, quando cioè il poeta aveva già conosciuto i boschi della Zelata: Totò-Iago e Ninetto-Otello, conciati da personaggi di Velázquez e ridotti a marionette e alla fine gettati in una discarica, contemplando il cielo, strisciato di nuvole, pur vicini alla fine ma senza paura per il futuro, prorompono in un «Ah, straziante bellezza del creato».