Lo spiega una ragazzina. «Le persone ci dicono che hanno speranza che i giovani possano salvare il mondo, ma non lo faremo – non c’è abbastanza tempo per aspettare che cresciamo e prendere il controllo» asserisce Greta, le cui trecce domani segneranno molte piazze non avvezze ad ospitare maree giovanili che reclamano un «altro» futuro. Di clima si è cercato di parlarne il meno possibile, ma la siccità dei nostri fiumi, il tepore insolito dell’inverno alpino, l’aria inquinata delle città, si fanno sentire e aggrediscono l’olfatto, oltre all’immaginario dei sovranisti e dei più ostinati negazionisti, che non trovano scampo nella postura dello struzzo con il collo nella sabbia. Altro che Tav: è la mobilità come sistema che va ripensata e, per di più, senza violare chi abita i territori «attraversati».

Crisi del binomio auto individuale-petrolio. Da tempo anche i trasporti, o meglio il binomio auto individuale + petrolio, sono entrati nel computo della compromissione della nostra atmosfera. Ma l’allarme scattava solo d’inverno, anche se le code, i prezzi del carburante e l’inquinamento oscuravano ormai il sogno «on the road» di generazioni. Ormai siamo entrati in una fase d’emergenza e i disordini francesi bloccano i percorsi stradali più che riempire le piazze. La manifattura per eccellenza, che sforna da decenni auto individuali, nonché il mastodonte transcontinentale del petrolio, che ha impinguato le dinastie più opulente del secolo scorso, non potevano certo rimanere inerti di fronte al declino del loro binomio: un modello posto sul banco degli imputati che attentano alla salubrità e alla sopravvivenza, perfino dei ricchi, oltre che al reddito degli indigenti.

Le misure che le corporation hanno rapidamente convenuto sono quelle di prolungare oltre misura il sistema attuale ancora in ammortamento finanziario, personalizzando i veicoli con gli accessori più sofisticati (una grande società tedesca ha progettato una «stau-wage», dotata dei comfort per stare ore in coda!) e tenendo basso il prezzo del petrolio. Misure transitorie per scovare, nel frattempo, gli escamotage – come la guida automatica – per continuare a vendere un’auto a proprietà individuale, alimentabile ovunque da una colossale rete di distributori di carburante. Di conseguenza, il profondo cambiamento già in corso nel campo dei trasporti non viene nominato per quello che drammaticamente rivelerebbe: una presa d’atto che la rapina della natura a vantaggio di pochi non ha ulteriormente futuro nemmeno per il vitello d’oro dell’automobile.

Così, per non rinnegare le quattroruote, veniamo imboniti di «ecotasse», balzelli, superbolli, pedaggi, «bonus-malus», grammi di emissioni/Km, che confondono anche i più attenti osservatori. Ma – attenzione! – si tratta sempre di misure fiscali messe sulle spalle dei consumatori, autentiche «carbon tax» evase all’origine e caricate senza distinzione tanto sul commesso viaggiatore o sulla lavoratrice priva di trasporto pubblico, come sul magnate che si sposta con l’autista personale. A questo punto, non sarebbe male un po’ di chiarezza, dopo che la pantomima Salvini-Di Maio-Conte da un lato, prima sulle ecotasse e ora sui tunnel, e la ribellione dei «gilet jaune» dall’altro ci hanno sbalzato da una vicenda penosa dettata dagli imprenditori ad un quesito più intrigante, che richiede una matura riflessione e la ricerca di soluzioni a monte del problema. Perché mai l’ecologia dovrebbe pesare sulla schiena dei più poveri?

Veniamo alla «carbon tax». Per inquadrare l’intera questione energia-clima-trasporti, occorre considerare l’intero ciclo di vita («dal pozzo alle ruote») del prodotto mobilità. Se lo facciamo sotto il profilo fiscale esistono tasse molto più efficienti di quelle affibbiate a vari titoli, spesso discutibili, al consumatore finale. La più nota è la versione originale della «carbon tax», così come proposta da James Hansen, storico climatologo e direttore del NASA Goddard Institute of Space Studies, per cui alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili verrebbe addebitata una «tassa sul carbonio» (per tonnellata di CO2 emessa) imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso del processo attivato dal carburante. L’ammontare del prelievo risulterebbe neutrale rispetto al bilancio statale perché, una volta incassato, sarebbe ridistribuito per intero in forma di detrazione fiscale, ovvero come dividendo alla persona fisica o al nucleo familiare che paga le tasse e dimostra di ridurre la frazione del proprio reddito destinata ai consumi energetici (un reddito di cittadinanza ecologica, potremmo definirlo, in cui vige un paniere di generi che determinano la detrazione). Le somme verrebbero erogate sia a imprese che si occupano di efficienza energetica e energie rinnovabili, ma, soprattutto, finirebbero nelle tasche dei contribuenti «con minore impronta ecologica» e ridurrebbero i profitti dei grandi inquinatori.

A mio parere sarebbe questo l’unico modo per cui il pubblico potrebbe appoggiare una «carbon tax», dato che otterrebbe redistribuzione del reddito e riduzione progressiva delle emissioni senza che salga il prezzo del carburante da pagare alla pompa. Ciò varrebbe ad accelerare forme di mobilità, motorizzazione e vettori energetici migliorativi e sostitutivi rispetto a quelli dell’era del petrolio e verrebbe accompagnato dalla eliminazione progressiva delle attuali sovvenzioni all’industria dei combustibili fossili (in Italia si tratta di 14,8 miliardi di euro nell’ultimo anno, il doppio dello stanziamento per il cosiddetto reddito di cittadinanza!).

E la fine del motore a scoppio? Sarà arduo far passare la «carbon tax», ma il negazionismo anche più ostinato mostra le prime brecce. Negli ultimi mesi la questione del passaggio dai veicoli a propulsione tradizionale a quelli elettrici è venuta fortemente alla ribalta nel mondo sotto la forma dell’abbandono del motore a scoppio. Che esso – a benzina o gasolio – non faccia bene, lo sa chiunque si sia avvicinato ad un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle emissioni di CO2. Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si inverte.

Tutto sommato, non risulta granché sostituire un motore a combustione all’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino. Affidare in prevalenza all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) sarebbe ingannevole e, ancora una volta, il frutto di una lotta interna ai marchi automobilistici. Non dimentichiamo che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro combustibili destinati al trasporto delle persone e delle merci, con queste ultime che viaggiano spinte da motori esclusivamente diesel. Poiché buttare il gasolio è impensabile, è allora il motore a combustione a derivati di petrolio che ha raggiunto il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2.

Ibrido, elettrico, trasporto collettivo. Si capisce allora perché la riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma emerga come soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo «dal pozzo alla ruota» il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) deve inevitabilmente essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori energetici prodotti da fonti rinnovabili. Nell’obiettivo di avvicinare nel tempo la disponibilità di rinnovabili per alimentare i veicoli elettrici, è di notevole vantaggio la diffusione di motori ibridi, con la combinazione di motori a scoppio e a corrente, e il contemporaneo investimento nella riorganizzazione delle stazioni di servizio con colonnine di ricarica elettrica. Ma, non illudiamoci: non c’è prodigio di tecnologia che cancella i limiti invalicabili della natura e dei suoi tempi di rigenerazione. Se vogliamo letteralmente sopravvivere dobbiamo ridurre comunque il consumo di mobilità su mezzi individuali. E’ d’obbligo centrare il trasporto su una rete pubblica integrata alla pianificazione urbanistica, che riduca le sorgenti di traffico e di inquinamento e la cui spina dorsale sia costituita da mezzi di trasporto collettivi non più alimentati da fonti fossili.