Se comprate un’auto di ultima generazione non avete scelta, dovete ascoltare musica da radio, cellulare o piattaforme: non solo i cd, anche le usb sono finite in soffitta. Siamo immersi, volenti o nolenti, in una «sonosfera» spesso dominata da algoritmi, determinata dal nostro «profilo» tracciato magari su Youtube o Spotify. Anche se i vinili sono tornati di gran moda, si rischia di annegare nella «musica liquida».

Angelo Mastronardi
I supporti materiali rimangono una scelta passionale: un momento per leggere le note di copertina, i credits, guardare foto e illustrazioni nel booklet

Ne parliamo con Angelo Mastronardi, pianista, compositore, didatta, produttore discografico. Dal 2014 si è imposto all’attenzione con il primo album Like At The Beginning (Dodicilune), figura originale che unisce studi classici e jazz, laurea in Scienze della Comunicazione e studi con Barry Harris ed Antonio Sanchez, competenze artistiche e digitali, insegnamento e valorizzazione di nuovi talenti.

L’ultimo dei quattro album dell’artista pugliese (MOBA, GleAM) ha vinto il premio Jazzit Awards lo scorso anno. Mastronardi sarà il nostro Virgilio nel «girone» della dimensione sonora digitale.

La «liquidità sonora» sta modificando le abitudini percettive sia a livello di informazioni sia nella ubiquità (e qualità minore, diversa) dell’ascolto. Come artista e produttore sei molto dentro tali trasformazioni: puoi illustrarci ciò che è meno evidente e più condizionante del fenomeno?

Credo che la vera, innegabile conquista della «liquidità sonora» sia l’ubiquità e il vantaggio di poter ascoltare sempre ed in ogni luogo. Ciò che è meno evidente e più condizionante è una tendenza all’ascolto parziale dei progetti musicali e a non conoscerne i «crediti».

Questo è in parte indotto dai suggerimenti d’ascolto (realizzati su base algoritmica) delle piattaforme che selezionano alcune tracce dei dischi per farle confluire in playlist dove l’utente ha una scaletta fedele alle proprie abitudini sonore.

Oltre a ciò, ci sono le scelte editoriali dei team interni alle digital platforms, che scelgono brani anche in base alle richieste di «pitch» delle etichette. In tal caso saranno le capacità descrittive del produttore, o del «presentatore», a far sì che il pezzo rientri in questo o quell’altro contenitore e ad alimentare, in base a parole-chiave, l’accostamento con musica simile o affine. Va, peraltro, distinta la qualità della fonte sonora da quella dell’esperienza d’ascolto. Se facciamo riferimento alla prima, abbiamo avuto un netto miglioramento negli ultimi sette/otto anni.

Ormai non c’è nessun limite alla risoluzione audio della musica caricabile sulle piattaforme digitali, superiore persino a quella del cd che deve uniformarsi inevitabilmente alla formula 16 bit/44.100 Khz. Diverso è per il vinile, dove la qualità della musica è prossima a quella di partenza su master.

Se parliamo invece dell’esperienza d’ascolto le cose cambiano. La maggiore accessibilità di informazioni e possibilità di scelta ha aperto a sempre più persone l’occasione di conoscere universi musicali sconosciuti o lontani da abitudini, appetiti musicali o proposte radiofoniche. Questo scenario implica un’esposizione alla varietà che significa arricchimento ma può trasformarsi in superficialità se non per ascoltatori strutturati culturalmente o con forti inclinazioni estetiche.

Questa dimensione che effetti ha per i jazzfan e per i jazzisti, in quanto produttori di musica?

Come produttore ricevo decine di proposte settimanali da musicisti jazz e quando si discutono argomenti relativi alla distribuzione fisica e digitale l’atteggiamento oscilla tra totale indifferenza verso il digitale e accettazione, tutto sommato, passiva.

Spotify – piattaforma di più largo utilizzo con Apple Music, Deezer e Tidal, per citarne alcune – è vista dalla maggior parte degli artisti come un «dover esserci» che concorre all’ufficialità di una pubblicazione ma in un’ottica pur sempre marginale rispetto al supporto fisico.

Quasi nessun jazzista è interessato a scoprire il potenziale remunerativo, e di visibilità, di un comportamento pro-attivo sul digitale. La tendenza è vedere nella stampa del supporto la materializzazione e legittimazione dei propri sforzi produttivi: poco importa se il divario tra copie stampate e invendute rimane incolmabile. I jazzfan, invece, ascoltano sul digitale e quando apprezzano un progetto musicale acquistano anche il supporto fisico.

Bandcamp, in proposito, si sta rivelando una delle piattaforme più interessanti: funziona come un negozio dove gli artisti possono proporre, descrivere, promuovere e vendere la propria musica in digitale, cd e vinile stabilendone autonomamente il prezzo e lasciando un’esigua percentuale a Bandcamp. Lo trovo uno strumento molto utile.

In questo panorama come spieghi il tramonto del cd e la rinascita del vinile?

Il difficile periodo dal quale usciamo ha visto un aumento delle vendite di cd e vinile avendo tutti avuto più tempo per ascoltare con più calma da casa, senza distrazioni, impegni e, ahimè, concerti.

I due supporti rimangono la scelta passionale di chi pratica l’ascolto come un rituale: un momento per leggere le note di copertina, i credits, guardare foto e illustrazioni nel booklet, scegliere l’ordine d’ascolto. Con il vinile (in risalita negli Usa e in Nord Europa) l’esperienza d’ascolto si fa più integrale e la sua qualità unisce mirabilmente profondità e imperfezioni dell’analogico.

Dominio delle piattaforme a parte, i jazzisti si ostinano a produrre musica. Undici anni fa Paolo Fresu inaugurò la Tuk Music e tu, qualche anno fa, hai dato vita alla GleAM Records. Quali le tue caratteristiche e «risposte» a livello artistico e tecnologico?

GleAM esiste dal 2017 come risposta al bisogno di realizzare una visione unitaria per i miei progetti solistici. Ho cercato all’inizio di dar vita ad un piccolo universo di contenuti tra loro affini ma non troppo caratterizzati. Poi, quasi per gioco, nella primavera del 2019 ho prodotto per il batterista Alex Semprevivo un disco sui Jazz Messengers in cui avevo, peraltro, curato arrangiamenti e suonato il piano.

Guardare il processo dalla prospettiva del produttore mi ha convinto a seguire la mia naturale tendenza ad osservare il disegno d’insieme, risolvere le questioni intorno e al di fuori del processo creativo in sé. Pian piano son venute altre produzioni: con A Congregation of Folks di Daniele Germani ho finalmente riconosciuto un’idea di suono che avevo inseguito con il mio primo disco pubblicato per GleAM. Lo stesso vale per Xenya in cui ho prodotto alcuni tra i talenti italiani che stimo di più tra quelli già affermati (Alessandro Lanzoni, Cosimo Boni, Francesco Ponticelli, Roberto Giaquinto).

La mia risposta a livello artistico risiede nel cercare di produrre progetti che catturino lo spirito dei nostri tempi attraverso il respiro della musica. Sono convinto che questo «respiro» risieda nel suono e nel «feel» ritmico che un artista coltiva come improvvisatore e che riesce ad imprimere alle proprie composizioni in una cornice più ampia.

Ci puoi parlare di qualcuno dei giovani artisti che hai prodotto?

Difficile per me scegliere. Condivido con ciascuno affinità musicali, idee e li ringrazio per avermi fatto dono, attraverso i loro dischi, della loro esperienza unica con la musica. Finora ho scommesso su artisti giovani che si sono proposti con le prime opere da leader. Mi hanno colpito l’universo espressivo, l’entusiasmo nel voler collaborare attivamente alla gestione del percorso artistico, la forza delle idee. Daniele Germani, Justin Salisbury, il collettivo Xenya, Fabio De Angelis, Daniele Nasi e il suo BSDE 4tet, Enrico Valanzuolo Edoardo Liberati, Giuseppe Magagnino, Antonello Losacco, Alessandro Campobasso.

Tutti hanno qualcosa che aggiunge una prospettiva al suono che GleAM cerca di rappresentare con le sue tre direttrici: linea crossover per i progetti che abbracciano influenze a più ampio raggio; linea postbop, più radicata nella tradizione del jazz; la linea inaugurata quest’anno e dedicata alle produzioni musicali che lavorano in sinergia con le arti visive in una dimensione cinematica.