Domani l’ultima di campionato assegnerà formalmente lo scudetto alla Juventus, già vinto con qualche settimana di anticipo, complice anche la débacle della Roma nelle ultime due giornate. La Juve non avrebbe conquistato nessuno dei trenta scudetti, perché i suoi taccagni dirigenti, circa un secolo fa, per ben due anni non pagarono l’iscrizione al campionato e ci volle la minaccia di esclusione definitiva perché provvedessero a risolvere la morosità. A quei tempi le tensioni che attraversavano il calcio non erano costituite da Genny ‘a carogna e neppure dal lancio di banane ai calciatori di colore, però un venticello xenofobo soffiava fin dai primi campionati di calcio tanto che alcuni dirigenti denunciarono che eravam «pecorilmente supini agli inglesi», così agli inizi del Novecento tuonavano i depositari dell’italianità del calcio contro coloro che praticavano il football identico a quello d’Oltremanica.

La disputa, tra spinte xenofobe e innovazione dettata dall’industrializzazione, avveniva all’interno delle palestre, dove per primo in Italia fu accolto il calcio. Come osavano gli inglesi avocare a sé il diritto di primogenitura del football, quando a Firenze già nel ‘500 si praticava il calcio in una pubblica piazza? E poi c’è l’harpastum praticato dagli antichi romani. All’inizio del Novecento, la Federazione italiana ginnastica (Fig), unica strutturata a livello nazionale, accolse nelle palestre il gioco del calcio quando non esistevano i campi all’aperto (si veda l’interessante libro di Sergio Giuntini I calciatori delle palestre, Bradipolibri).

Non mancarono, in quegli anni, ondate xenofobe e di sdegno tra i dirigenti delle palestre, che volevano a tutti i costi italianizzare tutto lo sport. Manlio Pastorini, maestro di ginnastica pistoiese, scrisse un opuscolo sul basket, che non andava affatto chiamato così, bensì Palla a Cerchio, rivendicando l’italianità del gioco. Il termometro dell’acceso dibattito è dato dal direttore della «Palestra Ginnastica» di Ferrara, Alfonso Manarini, che il 15 ottobre nel 1903 su Il Ginnasta scriveva: «Constato con dolore che in materia di giochi noi italiani siamo umili tributari degli inglesi, dei tedeschi e dei francesi. Per imitare pecorilmente i primi si è stabilito che perfino le misure devono rispettarsi come cose sacre. Infatti il raggio della conferenza nel centro del campo deve essere di metri 9,20 la luce della porta di 7,30x 2,65 ed infine lo spessore dei pali che limitano la porta non deve essere superiore a cm 7 e millimetri 5! Aggiungo che quando i ginnasti giocano a calcio, vestono, mangiano, bevono e bestemmiano all’inglese!».

Nel fervente dibattito ospitato sulle colonne de Il Ginnasta, non manca chi con un occhio straniero coglie fin dagli albori del calcio la tendenza degli italiani a mettere in atto famoso «catenaccio e contropiede» che nel corso di tutto il Novecento ci renderà famosi in Europa. Walter French, per ruolo paragonabile a un attuale osservatore Uefa, dopo aver assistito al torneo di calcio Coppa Città di Torino, annota con dovizia di particolari su Il Ginnasta del gennaio 1904: «Noterò di passaggio che in tutte le squadre italiane, nel vero senso della parola, manca il calcio a goal, sicché spesso dopo aver portato con grande fatica ed abilità la palla fin sotto il goal avversario rimangono titubanti, dando così il tempo agli avversari di riaversi e contrattaccare distruggendo con un colpo deciso tutto il risultato dei loro sforzi. In altre parole, si osserva generalmente negli elementi italiani una maggiore disposizione alla difesa che all’attacco».

Insomma, fin dagli albori del calcio ci siamo mostrati più intenti a difendere che propensi a concludere a rete. Difensivisti o no, affievolitesi le dispute sulle misure del campo e della palla superate dal moltiplicarsi delle società sportive di foot-baller e messe da parte le polemiche xenofobe circoscritte ai dirigenti della palestre più che ai praticanti del calcio, sembrano passati decenni da quel 1898, quando a Torino il 26 marzo fu fondata la Federazione italiana del football (Fif), da due sodalizi ginnici come la Società Ginnastica Torino e la Società per l’educazione fisica Mediolanum Milano. Circa dieci anni dopo, in alternativa alla Fif, nel 1909 venne fondata la Federazione italiana gioco calcio (Figc): «Il progredire dei giuochi all’aperto e specialmente del giuoco del foot-ball ha tolto alle palestre un forte numero di ginnasti attivi e di fronte alle numerose squadre che erano un tempo vanto ed ornamento di molte società, noi vediamo oggi un continuo sorgere di nuovi clubs di foot-ball che attraggono col miraggio di un più immediato diletto un gran numero di giovani» si leggeva amaramente su Il Ginnasta. Le strade si erano ormai definitivamente separate, il calcio conquistava sempre maggiore spazio sugli organi di informazione.

Per alcuni anni, soprattutto nel secondo decennio del Novecento, sia la Fif sia la Figc continuarono a promuovere campionati di calcio distinti e separati, e spesso anche con regole differenti. Fino allo scoppio della prima guerra mondiale entrambe le federazioni ebbero vita attiva e anche un certo seguito, ma dopo la Grande Guerra, i calciatori passarono definitivamente alla Figc e la Federazione italiana football cessò le sue attività. Quella del calcio italiano di origine ginnastica fu un’esperienza anomala, unica nel suo genere in Europa.