L’arco di tempo di un dopoguerra troppo lungo per essere inteso come una parentesi veloce tra equilibri diversi e troppo breve per essere risolto come una transizione repentina e subitanea è divenuto, oramai da almeno una ventina d’anni, il terreno privilegiato di esercizio per revisionismi di diversa natura. Tra di essi, primeggia quello di Giampaolo Pansa, che di fatto, facendo propri aspetti significativi dell’auto-narrazione neofascista sul «sangue dei vinti», ha offerto ad esso un altrimenti insperato consenso di pubblico. Nel discorso di senso comune, infatti, la convinzione che tra il 1945 e il 1948 si sia consumata una lunghissima scia di omicidi politici, efferati nella modalità della loro esecuzione e, soprattutto, motivati da un calcolo d’interessi di cui il Partito comunista italiano sarebbe stato il depositario, con l’obiettivo di instaurare una dittatura comunista in Italia procedendo ad un vero e proprio massacro di classe, ha preso largamente piede.

Il claim anticomunista

La rilettura del lungo e unitario periodo che in realtà va dal marzo del 1943, con i grandi scioperi nelle fabbriche del Nord del Paese, all’attentato contro Palmiro Togliatti, è spesso filtrata dal ritorno di quell’immagine dell’orda rossa che, coltivata a suo tempo dai settori più conservatori e anticomunisti della società italiana, ha ritrovato vigore nel momento stesso in cui la consunzione e la morte del Pci decretavano il venire meno del soggetto storico al quale erano attribuite, direttamente o indirettamente, nefandezze di ogni genere e tipo. Di fatto questo approccio, al di là della sua assoluta inconsistenza storiografica, oltre a costituire una preventiva imputazione di false responsabilità, che capovolge il concreto comportamento dei gruppi dirigenti comunisti in quel periodo, impedisce anche una lettura problematizzante di due aspetti che invece si accompagnano al dopoguerra italiano, ossia la militarizzazione della politica e il tema della violenza inerziale.

La prima questione rinvia alla formazione di un’ampia leva di militanti sulla base della milizia armata o, comunque, a contatto con l’idea che la politica sia essenzialmente un esercizio di prevaricazione fisica. La seconda rimanda alla complessità della nozione di guerra civile, laddove essa non si riduca solo alla contrapposizione tra nemici dichiarati ma recuperi il surplus di radicalismo che si accompagna allo scontro tra individui e gruppi caratterizzati da comuni radici ma da visioni del mondo e interessi contrapposti. Una violenza, quest’ultima, che in nessuna guerra si conclude con l’atto formale di cessazione delle ostilità, trascinandosi e articolandosi nuovamente – semmai – in una serie di rivoli paralleli, nutriti proprio dalla reciprocità dei rapporti e dalla condivisione competitiva dei medesimi luoghi.

Il controllo del territorio

Così nel conflitto tra il neofascismo e alcuni segmenti della base militante comunista, peraltro assai poco proclivi, questi ultimi, a riconoscere al partito di riferimento un ruolo che non fosse quello di stabilire la cornice ideologica, all’interno della quale inserire iniziative proprie sospese tra dimensione spontaneista, una visione attivistica, se non a tratti quasi sentimentale del ricorso alle armi, nonché una concezione dell’azione di forza in quanto soluzione definitiva dei contrasti politici come, a volte, anche umani. Il territorio, e la disputa sul suo controllo, a partire dai luoghi di lavoro e di socializzazione, da questo punto di vista, costituisce un elemento strategico. Così come il problema dell’esercizio della giurisdizione politica.

In una fase di mutamento qual è quella del dopoguerra, soprattutto dopo un lungo conflitto che ha chiamato in causa gli stessi civili, quanta legittimità hanno le istituzione pubbliche, tanto più se sono viste come strumenti di preservazione del privilegio e delle diseguaglianze? Non di meno, a fronte della spaccatura ideologica che stava attraversando l’Italia, il principio dell’auto-organizzazione, insieme all’idea che la Resistenza sia un cammino rivoluzionario interrotto, da riprendere al più presto, quanto contò nella condivisione di atteggiamenti di forzatura, destinati poi a trascendere in violenza ripetuta? Aiuta nella comprensione di queste dinamiche il volume di Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante rossa (Laterza, pp. 200, euro 18). L’indagine che l’autore effettua, attraverso una ricostruzione dei fatti che coinvolsero il gruppo di ex partigiani che si costituì a Lambrate nel secondo dopoguerra, riprendendo gli studi in parte già operati a suo tempo da Cesare Bermani, ci consegna un ritratto collettivo a tinte forti. Significativo il passaggio in cui l’autore evidenza come «in molti di loro l’inizio della vita adulta, la scelta che porta alla maturità, è racchiusa nell’atto di disobbedienza al regime». Vi è un nesso che lega l’estremismo giovanile, a volte privo di precisi moventi ideologici, la consuetudine con la lotta armata, la convinzione che l’insurrezione costituisca l’atto politico per eccellenza e l’idea, a tratti romantica, della lotta di Liberazione come transito verso la rivoluzione sociale. In realtà i militanti del gruppo della «Volante rossa» si trovarono ad operare da subito, nell’Italia del dopoguerra, in un quadro di galoppante disincanto. Da un lato correva la linea legalitaria assunta dai comunisti, dall’altro il veloce spegnersi delle speranze in una trasformazione degli assetti sociali ed economici del Paese in senso egualitario. A ciò, come all’azione «normalizzatrice» dei governi e delle amministrazioni periferiche, si aggiunse ben presto la recrudescenza del neofascismo.

La mancata epurazione

La mancata epurazione e la continuità degli apparati pubblici, non ripuliti delle presenze del fascismo, diventano così i due indici su cui la militarizzazione degli spiriti conosce una reviviscenza ed un ulteriore riscontro. Non c’è una strategia precisa ma il bisogno di ricorrere alle vie di fatto, in una sorta di regolamento dei conti che sostituisce l’azione politica, vista come tortuosa e distante dalla propria identità. Non è un caso, infatti, se ad essere variamente colpiti (dall’intimidazione verbale fino all’assassinio), a volte confusamente, siano soprattutto gli esponenti del neofascismo repubblichino che vivono nelle immediate vicinanze dei loro aggressori. Di fatto la «Volante rossa», che pure si diede una qualche forma organizzativa ma, al suo interno, mantenne confini spesso indefiniti, coniugò il cospirazionismo al ricorso al gesto pubblico come sintesi della sua azione politica. Il riflusso seguito al 18 aprile 1948 e all’attentato a Togliatti, decretò ben presto l’insostenibilità di una militanza che trovava nell’antifascismo armato il suo punto di coagulo. La transizione postbellica era conclusa, aprendosi invece un lungo periodo dove lo scenario collettivo sarebbe stato caratterizzato dall’amara fine delle illusioni.