Per essere la storia di un’icona tra le più vistose della pop music, Bohemian Rhapsody è un film curiosamente privo di personalità – né bello né brutto, ancorato alla straordinaria interpretazione dell’attore egiziano Rami Malek, nei panni di Freddie Mercury, e immerso nel sound gloriosamente esagerato e gioiosamente accattivante di tutti i greatest hits dei Queen; quattro ragazzi inglesi sfigati, che fanno musica per gli sfigati come loro, come spiega Freddie al primo discografico che offre loro un contratto.

«SFIGATI», marginali, solitari, resi mostruosi dai loro superpoteri sono personaggi che hanno sempre affascinato Bryan Singer, il regista indicato nei credit del film, anche se licenziato dalla Fox un paio di settimane prima della fine della lavorazione – perché continuava ad assentarsi dal set, dice lo studio; perché lo studio non gli ha dato la possibilità di occuparsi di un genitore molto malato dice lui; perché Singer è da sempre notoriamente indisciplinato e su di lui aleggia la minaccia del #MeToo, dicono in molti.
Il risultato è che il film, finito dall’inglese Dexter Fletcher, lavora su una dimensione poetica cara a Singer ma è prosciugato della poesia e della tristezza, oltre che della ricca cifra stilistica a cui ci ha abituati questo regista.

Di «mostruoso», Freddie Mercury -nato Farrokh Bulsara a Zanzibar – aveva sicuramente la statura e quei quattro molari in più che, sosteneva lui, erano responsabili del suo eccezionale spettro vocale, spaziante quattro ottave. Malek usa la dentiera extra large con grande efficacia, come un effetto speciale – gli occhi chiari, timidi e maliziosi, che fanno capolino da dietro gli incisivi; il labbro che cerca nervosamente di coprirli. Un Nosferatu in paillette e Adidas, di fronte a cui vanno in delirio interi stadi.

«CON DENTI come quelli non ti vogliamo proprio», gli dicono Brian May e Roger Taylor, due musicisti della band Smile appena piantati in asso dal loro cantante a cui il giovane Freddie, che per mantenersi lavora nel bagagliaio di Heathrow, offre i suoi servigi. Li seduce con un paio di acuti e nel giro di qualche settimana ribattezza il gruppo, cui si è aggiunto un bassista, Queen – «si, proprio come sua altezza reale, perché è oltraggioso». Il resto è storia. Incapsulandola nella leggendaria performance al concerto di Live Aid, nel 1985, il film ripercorre cronologicamente l’epopea dei Queen.

Non particolarmente interessato a scavare nella qualità della loro musica o in quel loro appeal pansessuale incarnato, oltre che dal sound, dalle performance fiammeggianti di Mercury, che Malek ricrea catturandone alla perfezione l’abbandono e il mix atletico/erotico/kitch. Parte della cronologia è anche l’evoluzione di Freddie da compagno innamoratissimo di una commessa di Biba a un cliché di orgiastico consumatore di amanti gay, che però vediamo solo fuori campo. Il problema di Bohemian Rhapsody non è tanto – come hanno scritto parecchi critici- che non approfondisce la sessualità di Mercury, che è moralista o che taglia corto sul fatto che fosse malato di Aids (morì nel 1991): è che non approfondisce quasi nulla, rispetto per esempio a biopic musicali come Velvet Goldmine o Love & Mercy.

RIMANGONO, oltre a Malek che vale il costo del biglietto, alcune belle scene – come quelle in una fattoria inglese dove sarebbe stata composta Bohemian Rhapsody, o la ripresa quasi ininterrotta della performance di Live Aid- e la musica. Con Taylor e May produttori esecutivi del film, per la colonna sonora non sono stati fatti risparmi