«Questione di sguardi» è il titolo che Triennale Teatro dell’Arte, sotto la nuova direzione artistica di Umberto Angelini, ha scelto per la programmazione 2017. Una frase tratta dall’opera più celebre di John Berger che intende porre al centro la questione dello sguardo, della visione, della molteplicità di prospettive e punti di vista. A dare il via alla stagione è stata una lectio magistralis di Romeo Castellucci dal titolo «Vedersi vedere», nel corso della quale il regista ha riflettuto sulla relazione tra il teatro e la società, e in particolare sullo spettatore come soggetto che partecipa attivamente alla costruzione del senso dell’opera.

 
Il titolo, «Vedersi vedere», mi ha fatto tornare in mente la sua frase: «Guardare non è più un atto innocente» , nata nel corso di una riflessione sullo scandalo e sulle forme della censura che animò l’edizione 2015 del Festival di Santarcangelo. Il tema ritornava anche nella parole con cui introduceva la ripresa dell’«Orestea»: «Sarà come non poter distogliere gli occhi da Medusa». Ecco, volevo chiederle se il suo teatro, già nella fase ideativa, si pone il problema dello sguardo e in particolare dello sguardo dell’altro.

 

 

Certo, se lo pone, è un problema sempre presente che sta tra la sala e il palcoscenico. La prospettiva da cui lo affronto è proprio quella dello sguardo dello spettatore che forma la cosa. Qui, nella lectio, «vedersi vedere» si riferisce a questo. Guardare un’immagine è un gesto estremamente potente: cosa significa? Cosa implica? Quale conseguenze morali può avere, soprattutto in questa epoca? Guardare non è soltanto un gesto meccanico, è un gesto gravido di conseguenze. Mi piace ricordare la scoperta dello sguardo da parte di Giacometti: ci sono delle pagine straordinarie nei suoi diari quando ricorda quei momenti in cui si rese conto di vedere, quando si accorse dell’incredibile profondità di campo di uno sguardo; o quando al cinema, dando le spalle allo schermo, vide la profondità di campo della realtà. Per me si tratta di risvegliare questo atto.

 
Secondo Jean-Luc Godard occorrono due persone per produrre un’immagine. È un esempio ripreso da Nicolas Bourriaud e posto come fondamento della sua teoria sull’estetica relazionale. Anche lei è dell’idea che qualsiasi forma espressiva sia una contrattazione basata sulle relazioni umane?
Senza dubbio. Non conosco Bourriaud, ma le conclusioni alle quali sono arrivato sono le medesime. Diciamo che ciò che si lascia vedere non è un oggetto, sta piuttosto tra degli elementi sensibili. È un’epifania individuale, privata, che appartiene ad ogni singolo spettatore. Mi tornano in mente le teorie del primo cinema russo: nel momento in cui pongo due immagini ve ne è una terza, fantasmatica, che non è sensibile, però è quella la pietra preziosa che appartiene esclusivamente allo spettatore, che la incarica di vita con il proprio vissuto, con il suo cuore, il suo cervello, le sue cicatrici. Senza lo spettatore non si dà immagine. L’immagine è anche espressione della distanza: non è un oggetto, non è un’illustrazione, qualcosa che si può afferrare e consumare; l’immagine è una forma di appello, che può essere anche sgradevole. Un’immagine, degna di questo nome ha sempre un percorso, una strategia, non appartiene a nessuno perché appartiene a tutti. Pensiamo al teatro: sul piano della realtà lo spettacolo non consiste in nulla, non ha oggetto. È il linguaggio espressivo più fragile, perché il palcoscenico si svuota di un non persistente. Possiamo immaginare il teatro come un combustibile che consuma la propria materia. Che cosa ne resta, dunque, se non l’esperienza di ciascun spettatore? Il teatro richiede il tuo atto di presenza. L’esperienza più profonda è di chi vede: colui che vede si fa caverna accogliendo il gesto e agisce; il lavoro dell’attore è solo la superficie su cui si riflette l’esperienza dell’altro.

 
Duchamp sosteneva che un’opera d’arte è fatta di due componenti diverse: ciò che l’artista voleva fosse espresso e ciò che l’artista non intendeva affatto esprimere. E riconosceva in questa seconda componente il luogo in cui si verificava una sorta di lotta tra l’osservatore e l’artista. È importante per lei che ci sia questo momento di scontro?

 

 

È importante che l’artista non ci sia, che la sua opera sia un saluto, una forma di addio. Quindi nel momento in cui c’è l’opera, l’artista svanisce. Ci sono grandi artisti che hanno avuto la forza di distruggere l’ego. L’opera dovrebbe essere innanzitutto un’operazione di autodistruzione e poi di rigenerazione. Un’opera non la si consegna, la si getta; non c’è pedagogia, non è educazione, è qualcosa che sbatti in faccia all’altro, costringendolo così a fare i conti con la propria responsabilità di accettare o no. Si può anche rifiutare, ovviamente, spesso succede. Anche il rifiuto comunque è un atteggiamento interessante. Duchamp, ad esempio, è il tipico artista che abbandona lo spettatore, e questo abbandono è un dono; lui che crede nell’intelligenza dello spettatore, nel fatto che possa compiere delle scelte, come a quella di rifiutare; ci vuole coraggio.

 
In relazione a questo come si pone verso lo scandalo? Crede che sia un diritto scandalizzare, come sosteneva Pasolini, oppure vede lo scandalo come una sorta di condanna? Penso ad esempio a quello che accadde con le rappresentazioni di «Sul concetto di volto nel Figlio di Dio»…

 
Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. Lo scandalo nell’arte non solo può succedere ma direi che è il destino, l’orizzonte di ogni opera: non si dà opera d’arte senza scandalo. Scandalo però in senso greco, l’etimologia è «la pietra d’inciampo»: quando tu inciampi sei costretto a riformulare il tuo passo; è qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino, ne divieni cosciente. Lo scandalo è un interruttore. Poi, ovviamente, c’è un uso «giornalistico» di questa parola… ma non c’entra più niente, lì diventa provocazione, rientra a far parte di un vocabolario completamente diverso. La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza non solo di chi la fa ma anche quella delle persone a cui viene rivolta; è avvilente, è una tecnica pubblicitaria: miserabile perché troppo semplice, si smaschera immediatamente. Lo scandalo invece è qualcosa di molto più profondo e nascosto. Un’opera scandalosa non necessariamente ha dei toni forti. Lo scandalo può essere sepolto molto all’interno, può essere un elemento estremamente soffice, quasi invisibile. Mi viene in mente Hölderlin, uno dei poeti, degli artisti più scandalosi della storia. Un altro è Robert Walser, nella sua opera tutto quanto è grazioso, eppure c’è uno scandalo profondissimo, lo scandalo della vita che viene nascosto sotto una patina di borotalco. Queste sono tra le esperienze più radicali che mi vengono in mente. Bisogna capirsi attorno alla parola «scandalo», che comunque è molto importante.