Neil Young ha settantaquattro anni, la corporatura esile ha ceduto il posto a una a stazza da bisonte. Eppure, per qualche misteriosa ragione la voce sottile e inconfondibile è rimasta intatta, e il tocco sulla chitarra è sempre quello: furioso quando le corde sono elettriche, gentile come un frullio di colibrì quando la dimensione è acustica. La differenza , in tutti questi anni, l’ha fatta l’ispirazione: perché il nostro è iperprolifico a costo di ripetersi e di pubblicare canzoni che sembrano copie conformi di altre copie conformi. Quando  azzecca il disco giusto è una piccola epifania. E questa volta il contenuto miracolo è avvenuto. Colorado è il più bel disco di Neil Young almeno degli ultimi dieci anni almeno S’è messo attorno i fidi, affaticati e magnifici Crazy Horse, ha allestito uno studio casereccio nella casa di montagna dove è andato a vivere, e via con le prove tutti assieme a scalpitare su quattro accordi. Tempeste elettriche alla Zuma, da possessione voodoo rock, e delicati acquerelli che sembrano stare in piedi sul nulla, sbuffi arrugginiti d’armonica e tintinnii. E una canzone che da, da sola, vale il prezzo del disco: I Do.