È un libro che non lascia indifferenti. Commuove, spinge all’indignazione, solleva quel sentimento chiamato furore. E una volta che la rabbia cala, facendo tornare a un livello congruo la pressione, fa riflettere. Del resto Gad Lerner sa usare bene le parole. Possiede una lunga esperienza di giornalista sul campo.

QUESTO LIBRO nasce mentre lavorava alla preparazione di una serie di trasmissioni sulla condizione operaia nell’Italia del rancore e della paura. L’autore si è imbattuto in una notizia – una donna si è data fuoco dentro un ufficio dell’Inps – che i media mainstream mettono in evidenza solo per il gesto radicale e disperato della donna.
Lerner ha quindi preso un treno per Settimo Torinese, la cittadina dove viveva la donna diventata notizia per ventiquattro ore. È nato in questo modo Concetta. Una storia operaia (Feltrinelli, pp. 172, euro 15), libro da leggere, meditare e discutere.

Concetta è il nome della donna che si è data fuoco in un ufficio dell’Inps dopo aver atteso per mesi il Naspi, cioè il sussidio di disoccupazione. Per un banale errore e l’ottusità della burocrazia, ha dovuto aspettare mesi per cominciare a poterne usufruire. Nel frattempo i debiti salivano di entità, come l’esasperazione che raggiungeva l’acme. Dopo l’annuncio che il problema era stato risolto, Concetta scopre che gli arretrati erogati sono un insulto. Poco più di 250 euro invece degli oltre 3000 previsti. A quel punto si cosparge di alcol e si dà fuoco dentro l’ufficio dell’Inps.

GAD LERNER parla con il fratello della donna, con le amiche; incontra gli assessori e i padroncini che l’hanno licenziata con un sms. Emerge un affresco dell’Italia del lavoro nero, della cancellazione sistematica dei diritti sociali di cittadinanza, dell’Inps trasformato in controparte dei disoccupati, rigoroso solo nel rispettare pachidermiche norme burocratiche. E la politica è solo ancella delle imprese. In questo libro, Torino perde definitivamente l’aura di città operaia per eccellenza.

CONCETTA ERA ENTRATA nel mercato del lavoro quando la deindustrializzazione divorava lo spazio urbano e la vita di uomini e donne. Faceva le pulizia in una mega birreria chiamata Befed Brew Pub che vende birra e polletti vallespluga a poco prezzo. Ogni sera i locali si riempivano di migliaia di persone desiderose di evadere dalla miseria economica, sociale, relazionale della loro realtà. Un locale di successo, al punto che ne vengono aperti degli altri. Per una cittadina deindustrializzata, con percentuali di disoccupazione a due cifre, l’iniziativa imprenditoriale è salutata come un successo. Uno dei padroncini diventa il simbolo della possibile rinascita, dopo che la Fiat ha ridotto al minimo la sua presenza produttiva ed è venuto meno l’altro settore importante dell’economia cittadina, quella delle penna a sfera. Gli vengono quindi aperte le porte delle associazioni padronali, diventandone una figura chiave. Poi una truffa di un socio e il buco nel bilancio. Per tappare la falla aperta bisogna ridurre i costi. Riduzione delle ore per le pulizie. E conseguente taglio dei salari, mentre aumenta la fatica, cioè la produttività, cioè lo sfruttamento. In fondo i locali delle birrerie vanno comunque puliti. Ma anche facendo così i bilanci sono in rosso. Dunque: cosa fare? Quello che fanno tutti i padroni, esternalizzano alcuni servizi.

LA FORMA SCELTA è costituire una cooperativa che raccoglie i lavoratori e le lavoratrici senza grandi competenze. I mastri birrai no, perché il successo del progetto è dovuto alla produzione di un buon prodotto artigianale. Seppure a salario ridotto, rimangono quindi nell’impresa madre. La cooperativa ha come unico committente la birreria. Il suo presidente è la moglie del socio padrone della birreria. Poi la decisione di liquidare la cooperativa e stipulare un contratto con un service esterno. I padroncini vogliono salvare l’impresa e a modo loro ci riescono. Cinque donne restano però senza lavoro, mentre le condizioni di precarietà, di salari minimi sono la condizione di chi il lavoro non lo perde. L’affresco che viene fuori è quello dei working poor, cioè degli operai che prendono salari al di sotto della soglia di povertà.
Nel libro Lerner fa riferimento al ritorno della condizione servile del lavoro. Ma questo vale sia per chi il lavoro lo perde sia per chi quel posto lo mantiene. Per chi percepisce un salario da fame e per chi ha benefit e premi di produzione. Nei giorni scorsi l’Unione europea ha diffuso un importante e tuttavia poco diffuso report sugli impieghi nella gig economy, cioè sui lavoretti funzionali al capitalismo delle piattaforme (si può trovare sul sito http://www.feps-europe.eu).
Sia che si tratti di addetti alle pulizie, di bikers addetti alla consegna di pasti o di lavoratori della logistica, il rapporto europeo attesta che in Europa il lavoro è sinonimo di sfruttamento, di precarietà, di arbitrio. Concetta è cioè simbolo di una condizione operaia molto più diffusa di quanto i media mainstream testimonino.

L’UNICO LIETO FINE concesso in questo libro è che la protagonista non muore. È tuttora in riabilitazione vista l’estensione della pelle bruciata sul suo corpo. I medici stimano che potrà uscire solo tra uno, due anni dall’ospedale.
Per il resto emerge un mondo dove la solidarietà è bandita, così come la coscienza di classe. C’è il risentimento, il rancore diffuso che ha nella Rete il suo amplificatore. È il medesimo affresco uscito dall’ultimo rapporto del Censis, che tuttavia non spiega un fatto ormai evidente, cioè che la crescita economica va di pari passo con l’intensificarsi dei working poor. L’aumento delle disuguaglianze sociali e la polarizzazione radicale nella distribuzione della ricchezza continua, anche se si innalza di qualche punto percentuale il prodotto interno lordo.
Gad Lerner richiama un suo precedente libro (Operai, Feltrinelli) scritto agli inizi degli anni Ottanta, quando si era consumata la sconfitta operaia alla Fiat, per segnalare che la radici di questa realtà vanno cercate in quel cambiamento del capitalismo che quella caduta preannunciava. Ne è passata di acqua sotto i ponti. Il fiume delle esistenze individuali e della vita collettiva è inquinato da precarietà, assenza di diritti, salari da fame, mentre la politica – sia quella con la «P» maiuscola che quella con «p» minuscola – funziona solo come supporto alle imprese. Il lavoro ha il volto dell’imprenditore di successo o stilizzato con un brand noto.

Gad Lerner evoca l’apocalisse sociale e culturale che ha colpito la classe operaia. Già altri lo hanno fatto – Marco Revelli dedica a Torino uno del capitoli più belli del suo libro Non ti riconosco (Einaudi) – ma è proprio su questa sottolineatura di un’apocalisse culturale e sociale che si addensono non pochi problemi. Quando l’antropologo e filosofo Ernesto De Martino usò questa immagine voleva rappresentare la fine del mondo contadino. La fiducia nel progresso, tuttavia, in una alternativa alla fine del mondo rurale c’era. Erano le industrie che aprivano i cancelli ai migranti interni, agli ex-contadini. Non c’era nessuna fine della Storia all’orizzonte, bensì l’inizio di una nuova stagione dei «subalterni».
Più o meno negli stessi anni degli scritti di De Martino, e al di là della manica, uno storico, Edward P. Thompson, scriveva uno dei libri più importanti di storia sociale del Novecento. Raccontava della formazione della classe operaia moderna e di come le tradizioni erano reinventate e riplasmate all’interno di una cultura popolare, proletaria altera e ribelle. In Concetta. Una storia operaia non c’è tuttavia nessun nuovo inizio.

SEMBRA CHE LA STORIA sia davvero finita con l’eclissi politica di una certa classe operaia. C’è però da dubitarne che sia proprio così. È questa l’unica stonatura del libro dedicato a Concetta. La sua vicenda differisce da tante altre storie solo per il gesto estremo, «l’immolazione» scrive a ragione Lerner, che la donna compie. Gesto radicale e disperato. Occorre immaginare altri gesti per queste vite precarie. Forse basterebbe solo che la presa di parola di molte e molti non sia relegata alla manifestazione più o meno incattivita di altrettanti account sui social network.
Prendere la parola, condividerla per affrontare il deserto del reale. Antonio Gramsci scrisse in quello straordinario laboratorio della resistenza all’oppressione che sono stati i Quaderni del carcere dell’interregno, cioè di quando un mondo muore e un altro ha difficoltà a mostrarsi. L’interregno è però non il tempo dell’attesa messianica in qualche sovvertimento, ma il tempo dell’agire politico. Della sperimentazione politica, delle forme da plasmare affinché la presa di parola non ripieghi su se stessa come lamento più o meno rabbioso del populismo contemporaneo. Bensì diventi la materia vivente di un esodo collettivo dal mondo della precarietà.