Un folletto punk attraversa la scena con un rallentato passo saltellante che ogni tanto sembra bloccarsi e rivoltarsi in uno sguardo stupito verso la sala. Non sappiamo ancora chi sia, cosa ci faccia su quel palcoscenico che promette l’Odissea di Omero, forse non lo sapremo nemmeno alla fine. Ma sappiamo di certo che è Robert Wilson. La maniera dell’artista texano ci è da tempo familiare, ravvivata anche dalla frequenza con cui ritroviamo i suoi lavori sulla scena, dalla bellissima Dreigroschenoper arrivata da Berlino al recentissimo Macbeth verdiano, ardua sfida giocata tutta per sottrazione, per negazione della rappresentazione, in un mondo francamente reazionario qual è quello del melodramma, abbarbicato come una cozza al roccioso presupposto che l’interprete debba essere soltanto un rispettoso esecutore a mezzo servizio dell’opera intangibile. E si sa quanto il mitilo mediterraneo possa assorbire il peggio del mare che gli sta intorno…

O forse questo senso di familiarità, questo riconoscimento immediato, ci viene proprio dal fatto che Wilson è ormai uno dei pochi artisti della scena internazionale che passano con relativa frequenza su palcoscenici sempre più lontani dalla contemporaneità. Dimenticato Platel, forse troppo costoso o troppo intelligente il divertimento di Marthaler, bandito per quieto vivere Rodrigo Garcia, a Roma per qualche sera uno straordinario Mundruczó, ma poi chi l’ha visto altrove? Sicché chi un tempo frequentava Leo e Perla oggi può perdere la bussola di fronte alla non conformità estetica di Constanza Macras…

Certo Wilson è attento a preservare con grande rigore formale il proprio manierismo. Tutto quello che ci si può attendere dal suo teatro è lì squadernato, a cominciare dalla raffinata cornice visiva in cui si inscrivono tutti i suoi lavori. Gli spazi vuoti che qui si aprono fra due pareti mobili, capaci di allargare o restringere la linea di fuga della prospettiva. La gestualità lenta che traduce in movimento l’esperienza del tempo. Il coesistere di primi piani e campi lunghi, anche con assai cinematografici effetti di ellissi e controcampi, a un passo dal montaggio delle attrazioni teorizzato da Ejzenstejn. I pochi oggetti che inevitabilmente assumono un valore simbolico (quel letto in cui l’eroe passa senza troppe remore da Circe a Penelope…). I ritagli geometrici creati dalle luci. Le figurette in processione che si stagliano in controluce su fondali trascoloranti dalle mutevoli tonalità luminose, con un ovvio prevalere di un verdazzurrato colore di mare.

Ma qui, si diceva, c’è di mezzo l’Odissea che un poliedrico scrittore inglese ha tratto dal poema omerico, Odyssey dice infatti il titolo dello spettacolo in scena al Piccolo teatro Strehler, sebbene greci e italiani siano i produttori e greca la lingua parlata dagli attori. Nel periplo produttivo che negli ultimi anni ha portato il regista a incontrare lingue e tradizioni teatrali diverse, dal Berliner Ensemble al Teatro nazionale di Praga (e qualcosa sembra sedimentarsi di volta in volta, come quei clowneschi volti imbiancati o quelle figurette livide che attraversano ghignando la scena, che vengono forse dall’espressionismo tedesco ma fanno ormai parte dell’universo visivo del regista), ora tocca al Teatro nazionale di Atene mettere la propria compagnia e il proprio stile recitativo, ciò che concretamente si esprime nella fisicità dei corpi, a servizio della vocazione all’immagine di Robert Wilson. E se da un lato sono gli attori a conformarsi al teatro formale del regista, alla gestualità di stampo orientale che nega ogni rigurgito psicologico, dall’altro la dimensione epica del racconto che sta alla base dello spettacolo produce a sua volta uno slittamento nella percezione dello spettatore.

L’Odissea è l’archetipo di tutte le narrazioni. Più ancora: è un contenitore di tutte le narrazioni possibili, di tutti i futuri generi si potrebbe dire – come infatti sperimenterà molti secoli dopo l’Ulisse di Joyce. E tutti ci passano davanti nelle ventisei scene in cui è suddiviso lo spettacolo, più o meno corrispondenti ad altrettanti episodi del poema. Ci sono il fantastico e il meraviglioso, le sirene dal nudo busto alato che spuntano da scogli fluorescenti e lo sgonfiarsi dell’enorme otre dei venti. L’horror nell’accecamento del faccione tridimensionale di Polifemo, dopo che nella finestra aperta sul fondo si era vista anche una mano di proporzioni altrettanto gigantesche scendere ad afferrare uno dei compagni. L’avventuroso del passaggio fra le lame dentate che ritagliano su un sipario le strette di Scilla e Cariddi. Il mélo sentimentale del ritorno a casa, fra lo squittio musicale della vecchia Euriclea e l’abbraccio danzato con la sposa ritrovata. Il moltiplicarsi favolistico del racconto nel racconto, sotto lo sguardo stregato della giovinetta Nausicaa che se ne sta distesa con un astice fra le mani, soggiogata dal complesso di Desdemona, la fascinazione per il maturo avventuriero che tante ne ha passate. Dentro naturalmente la cornice mitica, il consesso degli dèi che accoglie l’andare e venire di Atena in gara per salvare il suo protetto.
Alla classicità del mito Wilson oppone quella, decisamente più recente, della cultura popolare americana, quella cresciuta soprattutto nella prima metà del Novecento, a partire dal suo cinema. Wilson ha trovato il successo e ancora oggi lavora principalmente in Europa ma il suo sguardo, lo sguardo con cui legge l’Odissea, resta quello di un artista profondamente americano. È il musical, che il regista ha portato a un livello non superabile di perfezione con il memorabile Black rider realizzato insieme a Tom Waits. È appunto il cinema muto, cui sembra già alludere la presenza di un pianista che dalla buca dell’orchestra commenta l’azione con un eclettico fraseggio musicale. Un ritmo da comica slapstick circola fin dall’inizio sulla scena. Ma ci sono anche i lucertoloni cari ai B-movie della fantascienza d’epoca non ancora digitalizzata. L’allegro scat del jazz delle origini. I nasi dei porcellini da cartoon sul volto dei marinai vittime della maga…

Odyssey è uno spettacolo di grande divertimento. Privo delle zone d’ombra che il mondo greco non cercava di nascondere. Ciò che non può darci è appunto il sentimento, talora doloroso, della contemporaneità.