Quando lo raggiungiamo sono passate poche ore dalla conclusione della Conferenza nazionale sulle dipendenze di Genova. Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele, non si sottrae da un primo bilancio, a caldo, di un evento atteso 12 anni. In sintesi, è un pareggio tra aspetti positivi e note critiche, che dobbiamo, però, necessariamente articolare.

Che effetto le fa che, dopo tanto tempo, nel dibattito pubblico si torni a parlare di droghe e che la politica si riaffacci al tema?
È positivo che si siano riaccesi i riflettori sulla droga e di conseguenza sull’Aids. C’è stato il coraggio, bisogna darne atto alla ministra Dadone, di prendere in mano una materia che, tradizionalmente nei governi di larghe intese, viene considerata divisiva e nascosta sotto il tappeto. Si è ridata parola e ascolto agli attori del settore, compresi i consumatori. Terzo aspetto positivo è la produzione di documenti dai tavoli di lavoro con esigenze, proposte e cambiamenti necessari sulla base di dati ed evidenze scientifiche e del rispetto della dignità e dei diritti della persona. La richiesta che emerge è una radicale trasformazione della legge 309 del 1990, in particolare nel suo paradigma, dal penale al sociale. La ministra ha ribadito che la Conferenza non è un punto di arrivo ma di partenza: un lavoro da utilizzare nell’immediato per il nuovo Piano d’azione nazionale per le dipendenze 2022-2025, che ci chiede Unione europea, e, poi, da portare in Parlamento.

Quali le difficoltà contro cui si scontreranno le istanze emerse?
Si collocano tra ciò che si può fare subito e ciò che, invece, richiede riforme legislative ovvero proposte affidate al vento del confronto parlamentare, che ci ha abituato a rimandi continui. Da fare subito, sono il potenziamento delle misure alternative al carcere, un miglioramento del meccanismo di accesso all’uso medico della cannabis, più iniziative a favore del reinserimento sociale delle persone dipendenti, un parziale potenziamento del sistema dei servizi e della formazione degli operatori e un incentivo alla ricerca nel settore. E, poi, un coinvolgimento diretto della Regioni per la realizzazione dei Lea (livelli essenziali di assistenza) sulla riduzione del danno e della prevenzione. Ma questo implica la Conferenza Stato-Regioni e, dunque, un percorso più lento.

Se prima abbiamo inquadrato gli aspetti positivi, quali sono i risvolti critici?
I tempi ristretti nell’organizzazione hanno comportato un ricorso alla modalità online, in parte giustificato dal Covid, e un non pieno coinvolgimento degli attori in campo, penso agli operatori o alle famiglie. Un grande neo è stata l’assenza del Ministero della Salute, inqualificabile visto che il problema delle dipendenze è ritenuto dall’Oms una malattia. Un’assenza fragorosa sentita soprattutto dai Sert, in questi anni impoveriti di risorse e di organico. Ma il vero punto dolente è stata la mancanza di un tavolo sulla legalizzazione della cannabis a uso ricreativo, proprio in un momento in cui il mondo si sta muovendo sul tema, penso alla Germania che ha detto di volerla legalizzare. La questione, invece, qui è stata rimossa e non è emersa nessuna via italiana. Probabilmente doveva rimanere fuori dalla conferenza perché così era stato negoziato con il centrodestra. D’altronde anche la composizione dei tavoli era stata definita precedentemente. E l’ho visto in prima persona.

Lei ha, infatti, coordinato il tavolo tecnico su «giustizia penale, misure alternative e prestazioni sanitarie penitenziarie nell’ambito della dipendenza da sostanze psicoattive». Com’è andata?
Eravamo 21 esperti e c’è stata una condivisione larga. Solo due, uno sulla questione della coltivazione a uso personale della cannabis e uno sulla riforma dell’ordinamento penitenziario per far sì che ci sia accesso a siringhe pulite e condom, non erano d’accordo su singoli aspetti. La proposta più forte che è uscita dal tavolo è quella di un permesso di soggiorno in prova di circa due anni a favore di detenuti stranieri, che hanno disturbi di tossicodipendenza e che hanno fatto un percorso riabilitativo, per evitare che si ritrovino di nuovo in clandestinità e costretti alla recidiva per sopravvivere.