Nonostante la folta aneddotica che accompagna l’attività del controverso autore veneto, il caso Leonviola è ancora aperto. L’esperienza cinematografica di un regista che ci teneva a essere scomodo e spiazzante trova le sue radici nell’attività sperimentale dell’inizio anni trenta, soprattutto in Fiera di tipi del 1934, il piccolo capolavoro del Cineclub padovano, di cui rimangono alcune belle foto. Subito dopo, trasferitosi a Roma, parte per l’Etiopia dove come operatore di guerra dell’Istituto Luce gira molto materiale, che sarà alla base dei documentari di successo La battaglia dell’Amba Alagi e La marcia degli eroi.

Il suo esordio nel lungometraggio avviene con Rita da Cascia (1943) – il film avrebbe dovuto chiamarsi Sedotta da Dio ma il titolo è bocciato dalla censura – che suggerisce l’immagine di un autore formatosi sui classici del cinema in grado di padroneggiare con efficacia i materiali narrativi al di fuori degli stereotipi del biopic agiografico. Il ritratto della santa degli impossibili ha la forza di un antico bassorilievo scolpito nel legno, essenziale e folgorante. La protagonista femminile fa tutt’uno con il paesaggio di pietre dove vive la rivelazione di sé. La forza plastica dell’inquadratura e il gioco delle ombre e delle luci si saldano all’interpretazione straordinaria di un’attrice insolita come Elena Zareschi, che si appropria del personaggio con lo slancio con cui si anima sullo schermo l’eccezionalità della vocazione.

Nel clima del dopoguerra contrassegnato dal neorealismo non sembra esserci posto per un autore visionario attratto dal luccichio della finzione. Il ritorno alla regia avviene con Le due verità (1951) nel segno del melodramma giudiziario che si interroga sulla attendibilità del reale. La morte della protagonista e l’ultimo scorcio della sua esistenza danno vita a due ricostruzioni differenti, opposte, quasi due film in cui lo scambio di ruolo tra i personaggi e il capovolgimento delle strategie compositive ha la scansione geometrica del teorema. Scambiata all’epoca per facile pirandellismo, la maliziosa arringa dell’avvocato Michel Simon non rivisita l’uno, nessuno e centomila del drammaturgo siciliano, ma si risolve piuttosto in una paradossale dimostrazione dei poteri del cinema. Il neorealismo insegue la chimera della realtà mentre la sola realtà è la macchina da presa, la sua strepitosa capacità mitopoietica. Nel cerchio magico dell’illusionismo cinematografico, il regista lavora su un affascinante corpo d’attrice (Anna Maria Ferrero), facendone esplodere l’ambiguità, il singolare destino della donna che morì due volte.

L’interesse maggiore che sembra suscitare oggi il lavoro di Leonviola consiste nel suo rifiuto delle ambizioni sociologiche e referenziali del cinema italiano di allora, nella sua estraneità al canone. Rita da Cascia sembra l’opera di un primitivo che scopre per la prima volta la capacità evocativa del cinema, la forza dell’affabulazione. La sintonia tra il tema e il mezzo è tale per cui alla fine si scopre che è il cinema stesso a identificarsi con la santa degli impossibili. Ma Le due verità si scrolla di dosso un’identificazione così impegnativa per riproporre il corpo femminile in tutta la seduzione di un enigma da decifrare.

Sul ponte dei sospiri (1953) nasce con l’ambizione di rinnovare il cappa e spada attraverso l’ironia, lo smontaggio dei meccanismi tradizionali, le scenografie firmate De Chirico. La contaminazione tra sguardo d’autore e cinema popolare viene brutalmente esorcizzata dall’intervento del produttore Enrico Bomba che rimonta il film eliminando tutto il lavoro di riscrittura critica. Qualcosa resta nel prologo all’insegna del muto. La regressione alle origini del medium realizza il desiderio del regista di riattraversare le vecchie forme espressive come un momento forte della sua storia d’autore che si misura con la modernità proprio perché metabolizza la lezione del passato, compie fino in fondo il pellegrinaggio alle fonti della settima arte.

Non è un caso che all’inizio di Noi cannibali (1953) lo stesso Leonviola, guardando in macchina, apra la tenda del teatro di avanspettacolo come un sipario. Qualcosa di più della civetteria di una presenza paratestuale, quasi la volontà di richiamare l’attenzione sul tipo di film che stiamo per vedere. Sul suo rigore strutturale, sulla sua fedeltà al cuore nero del melodramma. L’intransigente taglio dell’immagine stravolge l’ambientazione realistica di partenza secondo moduli assolutamente finzionali. Se tutta la vicenda si svolge nel porto di Civitavecchia, tra le catapecchie ricavate nelle macerie lungo la ferrovia e i capannoni industriali, la scenografia dal vero viene prosciugata fino a comporsi nelle strutture astratte della pittura metafisica. Sin da quando Virginia (Silvana Pampanini) attraversa con Aldo (Vincenzo Musolino) la strada tra le baracche, la prorompente fisicità della ballerina viene accolta con gli stessi epiteti sguaiati che avevano salutato la sua esibizione sul palcoscenico dell’inizio. Il meccanismo voyeuristico esplode nella sequenza in cui Tango (Folco Lulli) attraverso il cannocchiale spia Virginia che con Aldo cerca di recuperare il peschereccio del padre affondato nella baia. Il cannocchiale ritorna più volte fino a diventare l’icona della visione en abîme che è al centro della messinscena. Anche nelle sequenze estreme del ballo popolare e dello stupro collettivo, la radiografia dell’ossessione maschile per il corpo della donna è lucidissima, tanto da poter sembrare paradossalmente prefemminista.

La singolarità di Noi cannibali, melodramma fiammeggiante in cui il regista libera i demoni della sua scommessa cinematografica, insieme barocca e austera, è che non inaugura una stagione di risultati significativi ma in qualche modo la conclude. Il congedo dal cinema avviene con I giovani tigri (1968), curiosa galleria di mostri di buona famiglia, a cui è estranea ogni condanna moralistica. Nella disinvoltura dell’impaginazione visiva, nonostante l’esplicita volontà di metterci paura con i loro progetti criminali, i protagonisti risultano ambiguamente simpatici. Spia del cinismo di un autore sfuggente e fuori dalle regole? Può darsi. Ma anche ulteriore conferma che nei film di Antonio Leonviola i contenuti passano in seconda linea nei confronti del linguaggio cinematografico e della sperimentazione estetica. Nel suo film d’addio si diverte a beffeggiare le ambizioni moderniste della nouvelle vague, riducendole allo scombinato balletto che procede a doppia velocità ma gira a vuoto.

BOX

Antonio Leone Viola – nasce il 13 maggio 1913 a Montagnana (Padova) e muore il 4 agosto 1995 a Roma – firma con il nome Leonviola per distinguersi dal commediografo e romanziere Cesare Giulio Viola. Giovanissimo, è attivo nel cinema sperimentale prima di affermarsi nelle cineattualità e nei documentari dell’Istituto Luce che gli aprono la strada del lungometraggio. Nel dopoguerra i suoi film più noti sono Le due verità (1951), Sul ponte dei sospiri (1953), Noi cannibali (1953), sospesi tra spettacolo popolare e autorialità, pratiche basse e cultura alta. Le colonne sonore dei suoi film più importanti sono di Bruno Maderna. Sono meno significativi Siluri umani (1954), completato da Carlo Lizzani, Il suo più grande amore (1956), remake del film d’esordio, Ballerina e buon Dio (1958), con la sequenza d’antologia degli scalcinati acrobati da strada. L’incontro con l’universo del peplum dà vita a ben quattro titoli. Nel 1983 fonda la Libera Università del Cinema di Roma con la moglie Sofia Scandurra, scrittrice, sceneggiatrice, aiutoregista di Zampa e Camerini, ma anche autrice di Io sono mia (1977), tratto da Donne in guerra di Dacia Maraini. Scomparsa il 29 agosto 2014, nel 2010 aveva pubblicato Cinema e ceci, rievocazione della sua esperienza famigliare (con Antonio aveva avuto tre figlie) e cinematografica fino alla direzione della scuola dopo la morte del marito.