Leonora, addio il primo film che Paolo Taviani ha girato da solo, con dedica al fratello Vittorio, dichiara la sua vocazione pirandelliana sin dal titolo, che è quello dell’omonima novella scritta da Pirandello nel 1910 di cui però qui non vi è traccia. È solo una delle variazioni di un gioco delle apparenze e del reale che intorno alla ceneri del poeta e drammaturgo, premio Nobel nel 1934, compone un racconto che sono in realtà due, in apparenza autonomi l’uno dall’altro, uniti soltanto dal riferimento pirandelliano. Il primo riguarda la sua vita, o meglio la sua morte e quanto intorno a essa accadde; il secondo è ispirato a una sua breve e crudelissima novella, Il chiodo, scritta prima di morire in cui un ragazzino siciliano a Brooklyn all’improvviso e senza una ragione – se non il colore rosso dei capelli o quello del vestito – uccide una bimba con un chiodo. Il primo è in bianco e nero suggerisce che la memoria anche storica può essere indefinita, il secondo a colori come se nella messinscena vivida della «finzione» sia possibile una maggiore grana verità.

MA COSA racconta allora Leonora, addio presentato ieri (e dal 17 in sala), unico titolo italiano nel concorso alla Berlinale? Pirandello muore nel 1936, la sua volontà è essere seppellito senza fanfare – quelle che invece vorrebbe il fascismo vista la fama dell’uomo – e di essere cremato. Le ceneri vengono chiuse al Verano, intanto scoppia la guerra narrata con i materiali di archivio e di film, dieci anni dopo l’urna viene ripresa e finalmente condotta a Agrigento. Un viaggio infinito e molto accidentato di cui si incarica un ostinato funzionario (Ferracane) che non avrà una sua vera conclusione se non oltre un decennio più tardi, negli anni sessanta quando viene eretto infine il monumento a Pirandello. La vicenda per Taviani si fa però pretesto per ripercorrere una storia italiana novecentesca (con uno sguardo al presente) attraverso i luoghi dell’immaginario, un terreno sul quale la leggenda delle ceneri rivela la trama di una società italiana tra la guerra e il dopo. Il treno che porta la cassa con l’urna e il suo accompagnatore da Roma alla Sicilia, è quasi un teatro di quella società fuori dal tempo, un paese analfabeta, impoverito, pieno di superstizioni, miseria, ignoranza e anche di una bellezza destinata a schiantarsi in quella futura ricostruzione. Il paese di De Gasperi e dell’America, del sud e del nord, della burocrazia e della poca limpidezza, dei calembour del dialetto e della comicità che si farà commedia nazionale. Ma non sono molte di quelle figure che popolano i convogli anche personaggi con cui Paolo e Vittorio hanno cercato a loro volta di inventare una narrazione italiana? Quasi che Taviani nella leggenda delle ceneri pirandelliane metta in gioco se stesso, i fili del passato, la sua fiducia nel cinema, nell’arte come spazio in cui confrontarsi col mondo. Interrogando al tempo stesso la figura dell’artista, e il suo stesso «mestiere», la creazione che permette tutto, pure il mistero di un delitto inspiegabile. Lo stesso mistero di quelle ceneri, e delle storie che ancora possono alimentare.