Sotto il titolo complessivo L’uomo è buono (pp. 324, euro 15,00) la benemerita editrice Del Vecchio ha appena pubblicato, nella impeccabile traduzione e cura di Paola Del Zoppo, il racconto L’origine del male (Die Ursache, 1915) e appunto l’antologia L’uomo è buono (Der Mensch ist gut. Novellen, 1917) di Leonhard Frank. Il volume ha il merito di riproporre al lettore odierno la prosa incisiva e cristallina di uno scrittore militante, coerente sino alla fine della sua movimentata vita (Würzburg 1882-Monaco 1961). Né vale meno il merito di additare, in questo centenario della prima guerra mondiale, l’esempio di un appassionato pacifista tedesco, che nello scoppio del conflitto vide lucidamente la rovina dell’Europa, a prescindere dal suo esito. Giacché Leonhard Frank non ebbe bisogno di aspettare il clima liberticida del nazismo per espatriare. Avendo pubblicamente schiaffeggiato un giornalista che inneggiava all’affondamento del «Lusitania» (1915), dichiarò nel contempo di essere contrario alla guerra. Il che gli valse un’accusa di vilipendio della patria che lo indusse a riparare in Svizzera.
Ma chi era Leonhard Frank? Quarto figlio di un falegname, nasce e cresce povero in un povero quartiere di Würzburg. L’istruzione è perciò quella di un artigiano che riesce a diplomarsi e a ottenere una borsa per studiare pittura all’Accademia di Belle Arti di Monaco. Dove la sua esistenza compie un salto di qualità, senza però riuscire a mettersi in sintonia con le avanguardie: Der blaue Reiter a Monaco, come poi a Zurigo il dadaismo. Anche nei confronti della nascente psicoanalisi l’approccio del nostro è segnato da cauto pragmatismo. Si appassiona alle teorie psicologiche di Otto Gross e ne segue gli insegnamenti per qualche anno. Ma la morte della fidanzata Sophie Benz, vittima del libertinaggio predicato e praticato da Gross, lo induce a cambiare città(da Monaco a Berlino), mentre rinuncia alla pittura per la scrittura.
Tuttavia L’origine del male riprende da Gross la teoria secondo la quale un individuo sottoposto a pesanti umiliazioni nell’infanzia può in età matura commettere un delitto senza essere un criminale, ma solo perché non è riuscito a superare il trauma della violenza inflitta quando non poteva reagire. È il caso del protagonista di questo racconto, il poeta povero Anton Seiler, che da Berlino decide di tornare al paese natio per regolare finalmente i conti con il suo sadico maestro Mager. Costui è un rappresentante esemplare dell’autorità di stampo guglielmino, dedito a educare gli scolari a diventare sudditi perfetti, del tipo eternato da Il suddito di Heinrich Mann. Mager ha già spinto al suicidio la sorella di Anton Seiler, picchiata davanti a tutta la classe a gonne alzate. E anche Anton riceve una perversa punizione che lo marchia a vita. Durante una gita scolastica nel bosco di Gutenberg tutti i partecipanti entrano in una locanda a ristorarsi con un bicchiere di latte. Tutti, tranne Anton Seiler, costretto dal maestro a restare fuori dal locale, perché non ha i dieci pfennig per pagarsi il latte. La povertà viene quindi punita con l’emarginazione. Tante altre ingiustizie prepotenze offese ha subito da allora l’indole sensibile del poeta. Ma quella prima umiliazione assume un valore archetipico nella sua vita. L’episodio è rimasto come un macigno sospeso sulla sua esistenza. Da qui la decisione di superare infine il trauma con una visita al vecchio maestro: «Mager avrebbe dovuto riconoscere il suo errore e chiedergli scusa. Gli avrebbe dato la forza di purificarsi, per una vita nuova, più valida» (pag. 37). Succede invece che proprio durante la visita Seiler assiste ancora alla scena del maestro che maltratta sadicamente un bambino: in quello sventurato, umiliato e singhiozzante, Seiler rivede ancora una vittima dei metodi di Mager. Rimasto solo con lui, gli rinfaccia l’episodio che lo ha marchiato a vita, lo afferra per il collo e lo strozza contro la parete.
Il processo che segue si conclude con la condanna a morte. La quale interessa a Frank meno del dibattimento che la precede. Da una parte, la corte, il pubblico ministero e i giurati, che si spiegherebbero l’omicidio di Mager col furto di cento marchi, che Seiler aveva casualmente arraffato. Ma non riescono a capire l’importanza del trauma infantile. Dall’altra il poeta, che esorta appassionatamente la corte a non fermarsi alle cause superficiali di un delitto. Nell’Europa odierna, rosa da un cancro morale, di chi è la colpa di un crimine? A risalire alle vere origini del male, «la colpa è dell’intero genere umano. Nell’individuo deflagra la colpa di tutti» (pag. 99). Gli innocenti infatti godono per nascita di un grosso privilegio. Nell’immenso imbuto sociale i benestanti, i pilastri della società, occupano la parte superiore, più ampia e comoda, dove trascorrono l’esistenza senza essere esposti alle tentazioni del bisogno. In basso invece, dove l’imbuto si restringe, «milioni di persone vengono costrette a sopportare la povertà, a istupidirsi nella miseria e affondare» (pag. 98). È un ragionamento che strappa il plauso del pubblico, ma che la corte respinge come fantasticheria.
Se l’indagine de L’origine del male intreccia strettamente psicoanalisi e critica sociale, il pacifismo esplode con tutta la sua forza nei cinque ritratti che compongono L’uomo è buono: il padre; la vedova di guerra; la madre; gli sposi; i mutilati di guerra. Ogni capitolo aggiunge nuovi orrori al precedente, a seconda del ruolo della persona colpita dalla guerra nei suoi affetti più cari. Ne risulta un’opera costruita sul crescendo del dolore, una galleria di personaggi ed episodi che ossessivamente riportano al Leitmotiv della follia che ha scatenato la guerra: «L’Europa intera è folle, perché non sa più amare. Non è una follia gioire alla notizia: Duemila cadaveri francesi giacciono sul nostro fronte?» (pag.146). Francese o tedesco, un caduto è un essere umano che «voleva tanto vivere ed è morto. Per che cosa? Perché?» (147). Per l’onore, è la risposta delle autorità militari. Quando a Robert comunicano che l’adorato figlio unico è caduto «sul campo dell’onore», si rende conto che il suo immenso dolore viene ripagato da una parola vuota di significato, una menzogna infernale capace di trascinare tutto un popolo a sofferenze mostruose. Similmente non funziona la consolazione data alla vedova di guerra: suo marito è morto «sull’altare della patria». Esiste una cosa del genere? La donna «continuava a vedere l’altare di fronte al quale, da ragazza, aveva preso la Prima Comunione, vedeva le candele e l’immagine di Cristo» (154). Ma l’altare della patria non sta in una chiesa, sibbene in campo di combattimento. Si dovrebbe dunque dire che il marito è morto sul filo spinato della patria.
Il culmine della follia si tocca con mano tra i morti, orrendamente sfregiati, e, forse ancora di più, tra i mutilati. Il mutilato è colui che ha avuto la fortuna di essere amputato prima di morire dissanguato. Nella sala operatoria improvvisata, che lo scrittore definisce «cucina del macellaio», il capitano chirurgo non ce la fa a stabilire le priorità, tanti sono i feriti che necessitano di amputazioni. L’intensità del suo lavoro è misurabile a vista d’occhio: «Le mani segate, le braccia, i piedi, le gambe galleggiano nel sangue, tra ovatta e pus, in una tinozza trasportabile che viene svuotata ogni sera» (229). Lo status di mutilato è dunque raggiunto dopo sofferenze inaudite e porta conseguenze per tutto il resto della vita. Che se ne fa della vita un fabbro a cui hanno amputato il braccio destro? E chi ha perso la vista resta ancora più disperato: «Non vedere mai più…! Non vedrò mai più mia moglie. E chi mi guida? E non vedrò mai più una strada…» (238). All’orrore della «cucina del macellaio» si alternano i bilanci numerici, spaventosi nelle loro cifre. Il capitano chirurgo stima in cinque milioni il numero degli amputati. Calcolando una lunghezza media di quaranta centimetri per ogni amputazione, si arriva a un totale di 2.500 chilometri di membra umane: si potrebbe costruire un macabro binario che da Berlino arriva sino a Essen e ritorno.
Quale l’esito di tanta barbara follia? Leonhard Frank adombra il sorgere spontaneo di una protesta che si ingrossa sempre più, in uno sterminato corteo, per l’adesione di tutte le vittime della guerra. L’uomo è buono, ma proprio questa sua bontà e la quantità mostruosa del dolore provocheranno la rivoluzione.