Essere un nero italiano non è facile per campioni come Mario Balotelli, Carlton Myers o Andrew Howe, bersagliati da ululati e fenomeni razzisti, in campo e fuori. Era ancora più terribile un secolo fa, pensando alla strabiliante vicenda di Leone Iacovacci, un pugile romano che divenne campione europeo dei pesi medi nel 1928, «cancellato» dal fascismo per il colore della sua pelle «che non poteva rappresentare il prototipo dell’italiano vincente». Una storia sconosciuta e straordinaria, ripescata dall’oblìo grazie al lavoro del sociologo Mauro Valeri che ha impiegato sei anni per scrivere il suo libro, Nero di Roma (Palombi editore), risalendo attraverso foto, articoli di giornali e testimonianze dirette a ricostruire la dura battaglia del boxeur contro i pregiudizi.

Ispirato dal libro e dai racconti di Valeri, il regista (e professore di storia al liceo) Tony Saccucci ha realizzato questo avvincente docufilm, Il pugile del duce, prodotto e distribuito dall’Istituto Luce, che uscirà nelle sale il 21 marzo, giornata mondiale contro il razzismo. E dagli archivi viene fuori la verità nascosta per decenni, quella di uno sportivo amato e bravissimo, idolo del pubblico capitolino e inviso al regime fascista che inventò il bianco gigante Carnera come pugile esemplare e oscurò, in tutti modi, la sua carriera «perché mulatto e negro» giungendo a tagliare e buttare pure i filmati ufficiali.

Il punto di partenza è stato un librone antico, un quadernone rilegato dove Leone Iacovacci – scomparso nel 1983 – aveva messo in fila, come in un diario, i suoi incontri sul ring e i ritagli di giornale che ne parlavano. Questo prezioso documento lo conservava in cantina la figlia Nicole, abitante in Piemonte (e intervistata nel film), rintracciata da Valeri nella sua «controstoria» di questo ragazzo, nato nel 1902 in Congo da padre italiano, un ingegnere agronomo e madre africana, una principessa babuendi, arrivato a tre anni a Roma per poi trasferirsi nel viterbese dove fu allevato dai nonni.

A sedici anni prese la via del mare: si imbarcò come mozzo e andò in Inghilterra dove adottò il nome di John Douglas Walker e si arruolò nell’esercito inglese. La boxe la scoprì per caso, a Londra, dove venne ingaggiato per strada per combattere contro un pugile bianco perché un boxeur nero si era dileguato. «Ha mai tirato di boxe? No. Sai fare a botte? Certo. Eccoti cinque sterline, devi resistere pochi round». Salì tra le quattro corde del quadrato e mise presto al tappeto il rivale.

Dotato di buona velocità e notevole potenza, lo sportivo dai pugni pesanti cambia spesso paese e nazionalità, facendosi passare per afroamericano nella Parigi degli anni venti, la capitale che accoglie artisti, musicisti e sportivi neri, dove sbaraglia gli avversari, col fenomenale record di 25 incontri, tutti vinti. Tra parate dell’Italia coloniale e balletti in costume dei nordafricani, territori sabbiosi e villaggi di capanne, i filmati dell’Istituto Luce proclamano la superiorità della razza ariana che «deve proteggersi dalle contaminazioni con le razze inferiori» con i neri africani paragonati a bestie belluine, dagli istinti primordiali. Però viene riconosciuta la nazionalità italiana a Leone Iacovacci che, un successo dopo l’altro, arriva a sfidare il detentore del titolo europeo dei pesi medi, il lombardo e fascista Mario Bosisio, il 24 giugno 1928.

All’epoca il pugilato era uno sport molto popolare e il pubblico locale era dalla parte del nero de Roma tanto che fu coniata pure una canzoncina «Non t’arrabbiar Bosisio/se Iacovacci te rompe il viso/ se ce rifarai un’artra vorta/ te manna a casa co le ossa rotte». Il film segue il clima di crescente tensione verso quell’incontro, col pubblico di 40 mila persone che affolla gli spalti dello stadio Nazionale (poi trasformato in Flaminio), in prima fila tanti gerarchi in divisa che vorrebbero vedere trionfare il campione del regime contro la razza nera. Le immagini mostrano Iacovacci all’attacco a spron battuto, combinazioni e diretti al corpo, mettendo in seria difficoltà Bosisio. I round si susseguono tranne l’ultimo, il quindicesimo, con la proclamazione della vittoria di Iacovacci, probabilmente manomesso e cancellato dalle bobine originali.

Il pugile del duce fa riemergere una storia del passato, l’esempio glorioso di un uomo che ha combattuto contro le barriere dell’ignoranza e del pregiudizio ma parla anche del nostro presente, le difficoltà di essere nero e italiano che incontrano i ragazzi adottati o figli di immigrati. Tra loro c’era anche Diamante, ex alunno del professor Saccucci, rapper romano d’origine brasiliana, che ha composto (con l’aiuto della musica di Sandal) la travolgente sigla finale di Il pugile del duce. «Leone! Primo grande campione/ afroitaliano seconda generazione/ spauracchio della nazione».