«La Svizzera ci accoglie a braccia chiuse, ci mette il pane duro dentro in bocca…». Così cantava Alberto D’Amico, un meraviglioso musicista veneziano che abbiamo perso proprio in questi giorni. Come fosse il pane della Svizzera, nessuno lo sapeva meglio di Leo Zanier, emigrato, sindacalista, organizzatore di cultura e poeta tra i maggiori del nostro tempo. Un libro di Paolo Barcella e Valerio Furneri, Una vita migrante. Leonardo Zanier, sindacalista e poeta (1935-2017) (Carocci, pp. 196, euro 21) ce lo restituisce oggi in entrambe le inseparabile dimensioni della sua storia: c’era poesia e sentimento nell’azione politica e sociale di Leo Zanier, e c’era rigore e coscienza nella musica della sua poesia.

COME SCRIVE Michele Colucci nell’introduzione, «Leonardo Zanier ha vissuto direttamente e in prima persona tutte le stratificazioni locali, nazionali e internazionali dell’esperienza migratoria, tenendo sempre come baricentro e come punto di riferimento il territorio della Carnia, che non era per lui semplicemente una “zona di partenza” ma un luogo in cui tornare di continuo, uno stimolo culturale e linguistico, una sfida politica piena di significati da svelare e da conquistare di volta in volta, usando gli strumenti della letteratura, quelli della ricerca o quelli della dialettica politica».

Nato nel 1935 a Maranzanis, diplomato perito industriale, dopo un’esperienza in Marocco a 19 anni, dagli anni ’60 in poi Leo Zanier fra partenze e ritorni tra la Carnia e la Svizzera, lavora e si impegna nella rivendicazione dei diritti degli immigrati. A lungo iscritto al Pci, mantiene sempre l’indipendenza di giudizio; come militante e come presidente della Federazione delle Colonie libere italiane e dell’Ecap-Cgil sarà sempre una spina nel fianco delle istituzioni repressive. Le informazioni più precise ed esaurienti sulla biografia e l’attività di Leo Zanier sono reperite negli archivi della polizia svizzera.

La Carnia di Leonardo Zanier ha il mondo in casa, e si dirama nel mondo. Scrivere in lingua carnica non è una scelta localistica ma l’esito di un rapporto profondo con un terra di confine, all’estremo dell’Italia ma al centro dell’Europa, dove arrivano invasori e occupanti (Pasolini cantava dei «Turcs tal Friùl»; e Zanier racconta di quando, sotto l’occupazione tedesca, ha avuto addirittura i cosacchi dentro casa) e partono generazioni di emigranti. Il piacere della sua poesia, per chi non è nativo della sua lingua, sta anche nella sfida di ascoltarla e di entrarci dentro come in un territorio aspro e musicale, ricorrendo solo il minimo possibile alle traduzioni e cercando di ricostruire i suoni. Zanier parlava da un luogo specifico, e per questo parlava a tutti; nei suoi versi esplorava il profondo legame tra una tragedia vicina come il Vajont, e altre solo geograficamente lontane come Marcinelle e Chernobyl. Quando venne alla Casa della Memoria di Roma nel 2014, l’attore e scrittore Abubakar Mukhtar Jokof leggeva le sue poesie in arabo e Alessandra Kersevan, dal Canzoniere di Aiello, le cantava in musica.

FORSE IL SIGNIFICATO ultimo del suo libro di poesia più conosciuto, Libers… di scugni lâ, liberi di doversene andare (Effigie) sta in quei puntini sospesi fra due termini contraddittori e speculari. Da un lato, l’emigrazione come costrizione, violenza imposta, «esito della noncuranza, dell’incapacità di gestione del territorio, oppure della malafede di chi sceglieva politiche vantaggiose per le classi abbienti e privilegiate, non tutelando i lavoratori e diffondendo rappresentazioni del fenomeno falsate». Dall’altro, l’emigrazione come esperienza, conoscenza, formazione personale e collettiva (non a caso l’organizzazione a cui Zanier ha dedicato tanto della sua vita si chiama Colonie libere). La prospettiva di Zanier ha tenuto insieme sia il diritto di restare, sia quello di andare. Con l’impegno nella formazione professionale e il progetto dell’«albergo diffuso» si è impegnato affinché nella sua Carnia fosse possibile rimanere e vivere dignitosamente. Con la battaglia politica e l’organizzazione sindacale ha fatto crescere i diritti di chi emigrava, in nome del diritto umano e politico alla mobilità, contro i referendum xenofobi nella Svizzera degli anni ’70 e la xenofobia montante nell’Italia del terzo millennio.

In proposito, scrive bene Paolo Barcella: non è vero «che la memoria sia un antidoto contro il razzismo e la xenofobia: per cui l’ostilità diffusa nei confronti degli stranieri sarebbe generata dalla rimozione della memoria di quel che gli italiani sono stati in un passato più o meno remoto». La memoria da sola non genera empatia; può suscitare un senso di rivalsa (è giusto che quello che abbiamo passato noi ora lo subiscano gli altri), o far diventare senso comune che è così che si trattano gli stranieri. La memoria non serve senza la giustizia; ci vuole la politica, e ci vuole la poesia. Ci vuole la vita e l’esempio di Leonardo Zanier.