«Qui, a guardare questi uomini nelle pause del lavoro o nelle strade davanti alle porte, nei caffè, in certi indugi, in certi abbandoni, in certe forme di riposo, si può anche avere l’impressione di essere di fronte ad un mondo in cui l’ozio sia assoluta condizione di aspirazione. E invece questo è un popolo che per secoli, duramente, con amaro frutto, ha faticato sui campi, nella zolfara». Le parole con cui nel 1964 Sciascia commentava Gela antica e nuova – documentario sul polo petrolchimico, commissionato dall’Eni al regista fiorentino Giuseppe Ferrara – potremmo tutto sommato usarle per riassumere il suo stesso rapporto con il lavoro.

LO SCRITTORE non fece mai mistero della propria aspirazione a praticare «l’ozio», l’otium ciceroniano, lo studio funzionale all’impegno civile e politico. Scrivendo quelle righe, non poteva non pensare anche a sé, e alla zolfara in cui affondavano non soltanto la sua storia familiare, ma pure i suoi ingombranti traumi privati. La storia della famiglia Sciascia affonda, infatti, nello zolfo. Il nonno Leonardo Sciascia-Alfieri entra in una miniera a nove anni e ci resta tutta la vita. Inizialmente è solo un caruso, ma riesce a emanciparsi da un destino misero e a passare all’amministrazione studiando la notte. Anche il padre Pasquale, dopo una parentesi oltreoceano, finisce per guadagnarsi il pane grazie alla zolfara, e grazie alla scuola – anche se gli studi non li ha portati a termine – può fare il contabile invece che il picconiere. Giuseppe Sciascia, fratello di Leonardo, viene spedito alla Regia scuola mineraria «Sebastiano Mottura» di Caltanissetta: il primo dei tre istituti tecnici minerari creati nell’Italia postunitaria. La zolfara in cui Giuseppe lavora è detta «del Bambinello». Nome curioso per una miniera di zolfo, che la storia e la letteratura ci insegnano a ricordare principalmente come centro di sfruttamento del lavoro minorile.

IN QUESTO LUOGO, Giuseppe muore suicida a venticinque anni. «Giaceva sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata, a metà strada, in linea d’aria, tra il suo paese e il capoluogo», dirà lo Sciascia romanziere collocando in uno spazio il ritrovamento del corpo del commissario Laurana, in A ciascuno il suo. Ma non parlerà mai di questa tragedia, se non in qualche rarissima occasione. Una di queste è una risposta a Domenico Porzio: «Mio padre adempiva ai suoi doveri con molto rigore; restava alla zolfara tutta la settimana e se ne veniva a casa solo al sabato. Mio fratello stava con lui. A un certo punto scoppiò uno sciopero alla zolfara, un lungo sciopero. Mio padre, che doveva fare i conti all’amministrazione, aveva una ragione per restare. Mentre mio fratello, per i suoi compiti di perito, poteva anche andarsene, tornare a casa, insomma fare qualcos’altro visto che la zolfara era chiusa. Invece, forse per non lasciare solo mio padre, è rimasto lì. E in quella zolfara – io ci sono stato: è un paesaggio desolato, brutto, orribile – forse ha avuto un momento di sconforto. Non so. Si è sentito prigioniero. Non siamo riusciti a capirlo».

UN PAESAGGIO E UN LAVORO che anche secondo Stefano Vilardo, inseparabile amico e compagno di scuola di Sciascia, non avevano lasciato scampo al fratello Giuseppe: «Relegato in una piccola miniera di zolfo, la “Bambinello”, chiusa da monti spelacchiati, senza un sorriso di verde, sorvolata da crocidanti cornacchie, corvi, gazze, neri uccellacci del male, non trovò via di scampo, possibile fuga, che nella morte. Aveva fatto diversi concorsi, Peppino, diverse richieste per altri lavori che s’erano risolti in sonore, cocenti sconfitte». Leonardo Sciascia si recherà a sostenere e vincere il suo concorso magistrale venti giorni dopo il suicidio del fratello. Nel testo con cui si affaccia al pubblico nazionale dirà: «Entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie». (…) Sciascia insegnerà alla scuola «Generale Macaluso» di Racalmuto per otto anni scolastici, dall’ottobre 1949 al dicembre 1957.

La rappresentazione letteraria della vita a scuola che ci fornisce nelle Cronache scolastiche, pubblicate per la prima volta sulla rivista «Nuovi Argomenti» e poi incluse ne Le parrocchie di Regalpetra, è innegabilmente quella dello spazio claustrofobico in cui il maestro si muove sognando continuamente l’evasione: «Passeggio tra i banchi . Dal tavolo alla finestra che è in fondo all’aula, dalla finestra al tavolo». In qualche altro testo di Sciascia, di contro, il lavoro a scuola – anche se non è quello dell’insegnamento – è visto non come condizione di reclusione, ma piuttosto come occasione di fuga dalla Sicilia e di apertura al mondo. È il caso dello zolfataro de L’Antimonio, che alla fine del racconto valuta di andare a fare il bidello in una scuola elementare statale e non è per nulla turbato all’idea di lasciare il paese: «“No” io dissi “è meglio in una città lontana: fuori dalla Sicilia, una città che sia grande.” “E perché?” chiese meravigliato il segretario. “Voglio vedere cose nuove” dissi».

PER SFATARE il luogo comune di uno Sciascia «insegnante fannullone» basta seguire una delle sue lezioni fondamentali e cercare la verità in un archivio. La scrupolosità e l’approfondimento pedagogico con le quali lo scrittore ha svolto il suo lavoro di maestro, infatti, restano nelle fitte relazioni mensili degli otto registri di classe del maestro Leonardo, provenienti dall’archivio dell’I.C. «Leonardo Sciascia», custoditi nelle teche della Fondazione.
Più che dello Sciascia lavoratore, però, occorre dire dello Sciascia che, negli anni del dibattito su letteratura e industria, parla delle condizioni di lavoro in un paese al centro della Sicilia. Sciascia non era certamente il primo letterato siciliano a occuparsi di zolfare: aveva alle spalle i nomi di Verga, di Pirandello, di Rosso di San Secondo. E non solo di zolfatari si è occupato. Ad esempio, il documentario sul polo petrolchimico di Gela citato in apertura è una testimonianza del passaggio da un’economia fondata sullo zolfo a un’economia che si voleva far decollare grazie al petrolio. Ma è soprattutto la realtà dei salinari – ai quali ne Le parrocchie è dedicata l’inchiesta intitolata appunto I salinari – quella che gli riesce meglio, sbattendo in faccia al lettore, con tanto di elenco, le patologie mediche derivanti della permanenza protratta all’interno delle miniere di salgemma.

SCIASCIA stesso mostra di aver particolarmente a cuore questo testo, come dimostra il suo intervento, nel 1960, al convegno di Palma di Montechiaro «sulle condizioni di vita e di salute in condizioni arretrate della Sicilia occidentale»: «Tempo addietro mi chiesero, per una delle solite inchieste, quali fossero a mio giudizio le pagine migliori che avessi scritto. Ho risposto press’a poco così: Nel 1956, fino al 1956, i salinari del mio paese, cioè di Racalmuto nella nostra provincia, avevano un salario di 5-6000 lire al giorno e lavoravano circa 16 ore. Dopo la pubblicazione di un mio libro, in cui parlavo anche dei salinari, delle loro condizioni di salario e di vita, la loro sorte è cominciata a migliorare: al punto che oggi il loro salario è doppio rispetto a quello del ’56 e lavorano regolarmente per 8 ore. Perciò ritengo che quelle sui salinari siano le migliori pagine che io abbia mai scritto».

SE RACALMUTO oggi non è più il paese dello zolfo, è ancora conosciuto come «il paese del sale». La guida turistica stampata dal Comune informa senza mezzi termini che «la chiusura delle zolfare negli anni Settanta ha determinato una crisi economica e demografica dalla quale il paese non si è ancora ripreso», ma dice anche di un primato straordinario, relativo all’unica miniera di salgemma ancora attiva, ubicata in contrada Pantanelle. Con i suoi quaranta chilometri di gallerie, a seconda della richiesta del mercato, è capace di produrre in una sola giornata fra le settecento e le millecinquecento tonnellate di salgemma, e arriva a coprire da sola il 75% della produzione nazionale di sale. Anche la miniera del Bambinello esiste tuttora. È uno degli ottanta pozzi che tarlano il paesaggio di Àssoro, in provincia di Enna, ma è solo il relitto di una lunga stagione dell’economia siciliana ormai estinta. Attira qualche fotografo, di tanto in tanto, ma oggi è un complesso di ruderi in stato di completo abbandono. Chi vi arriva da Palermo percorrendo la A19, non potrà fare a meno di notare gli stormi di uccelli neri in picchiata sparsi per il cielo e l’esercito di corvi che presidia il guardrail nei pressi della galleria Tremonzelli. Da un simile paesaggio il mare dista appena un’ora.