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Leonardo Padura, destini di condivisa non appartenenza

Leonardo Padura, destini di condivisa non appartenenzaEd van der Elsken, «Cuba», 1967

Scrittori cubani Ampio affresco narrativo sulla diaspora, «Come polvere nel vento» ricostruisce entusiasmo, delusioni e malinconia di una generazione cubana di espatriati, all’inizio del «Periodo Especial»: da Bompiani

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 1 maggio 2022

Oggi i cubani che abbandonano l’isola rientrano nell’universale categoria dei migranti, ma subito dopo la rivoluzione venivano chiamati gusanos, appellativo che significa vermi, a manifestare il disprezzo verso chi abbandonò il processo sovvertitore dei destini di Cuba e dell’America Latina. Poi li chiamarono marielitos, dove il diminutivo aveva le sfumature sprezzanti rivolte a chi partiva dal porto di Mariel nel 1980 verso la Florida, non avendo saputo resistere al richiamo della sirena gringa. Negli anni Novanta diventarono balseros, ammassati su mezzi precari per tentare di attraversare un insidioso braccio di mare. Tutti questi appellativi, insieme a altri ancora, confluiscono nell’ultimo romanzo di Leonardo Padura, Come polvere nel vento (traduzione di Bruno Arpaia, Bompiani, pp.742, € 22,00) contribuendo a un vasto affresco narrativo sulla diaspora cubana, focalizzato sulla generazione che, nata con il processo rivoluzionario, cominciò a partire dopo il 1989, quando a Cuba iniziava il cosiddetto «Periodo Especial en Tiempo de Paz».

Tema ricorrente
L’argomento non è nuovo: lo stesso Padura lo ha affrontato in altri romanzi, in alcuni racconti e in una sceneggiatura, che sono gli antecedenti immediati di questo ultimo romanzo. Gran parte della letteratura cubana è peraltro segnata dall’esperienza delle migrazioni fin dalle sue origini, e lo stesso José Martí, scrittore e leader del movimento per l’indipendenza cubana visse gran parte della sua vita in esilio. Lo spartiacque della rivoluzione ha dato vita a due filoni letterari paralleli, dove il «partire» è elemento imprescindibile della scrittura cubana, fuori e dentro l’isola. Tre sono le categorie della produzione culturale della diaspora individuate a suo tempo dal critico e poeta Gustavo Pérez Firmat: una letteratura dell’esilio, spesso nostalgica e retrospettiva, un’altra della migrazione, orientata al futuro che si consuma nei nuovi paesi di arrivo, e quella «etnica», basata su una «straordinarietà» cubana, anche in forme spesso stereotipate. Il romanzo di Padura sembra riunirle tutte, attraverso storie di esiliati politici, di espatriati per ragioni economiche, e di nuove generazioni, che nelle parole di uno dei personaggi più giovani parla di sé come «non un esiliato, ma uno che vive da un’altra parte».

I cambiamenti avvenuti nel corso di sessant’anni pretendono in effetti nuove coordinate interpretative, a partire da una iniziale riconsiderazione della parola «esilio», che per molti anni venne riferita alla situazione cubana con una certa cautela. Padura la impiega invece senza reticenze: i suoi personaggi diventano senz’altro «esiliati» dal momento in cui sono costretti ad andarsene a causa delle condizioni politiche, sociali ed economiche dell’isola. Il romanzo indaga il destino di un Clan di otto amici, che consumano uno stesso percorso di formazione nella Cuba degli anni Ottanta, mentre è in corso un processo rivoluzionario in cui coabitano lo slancio ideale e madornali errori politici, insieme a una accentuata deriva autoritaria. I giovani di quegli anni condividono entusiasmi e delusioni, almeno fino al momento dell’isolamento conseguente al collasso del blocco sovietico. A quel punto, sono le relazioni personali a funzionare da collante: solo due componenti del gruppo rimangono a L’Avana, mentre gli altri si disperdono tra gli Stati Uniti, la Spagna, Portorico e l’Argentina. Tenteranno comunque di non perdere quei loro legami giovanili, intrecciando anche a distanza storie che proveranno a sciogliere i nodi non chiariti che furono tra le cause non secondarie della loro dispersione.

Fedele alla forma del romanzo giallo – in cui i personaggi si interrogano sulle ragioni di una morte misteriosa e dell’inspiegabile sparizione di Elisa Correa, la ribelle del Clan – Padura compie una scelta architettonica che prevede il classico narratore onnisciente, utilizzato con una maestria funzionale anche a controllare scenari temporali e spaziali che coprono sei decenni e due continenti. A questa struttura, il romanzo aggiunge una forma corale, che rende proprie di una intera generazione alcune scelte individuali. Il narratore unico e il coro convergono grazie a quella tecnica di chiara origine cinematografica di cui Rashomon è l’esempio più noto, riproponendo gli stessi episodi nei vissuti dei diversi personaggi, e addivenendo dunque a una focalizzazione multipla e affidata a varie fasi temporali. È una tecnica che contempla, di solito, testimoni in prima persona, mentre qui il narratore sembra voler controllare il flusso dei ricordi, dando luogo a una certa ripetitività, senza che sguardi multipli si traducano in un effettivo allargamento del punto di vista.

Osservatorio dalla capitale
La dispersione geografica e sentimentale dei personaggi viene infatti osservata da un luogo ben definito, quello della capitale cubana, il cui ruolo resta sempre centrale: nessuno degli «emigrati, esiliati o espatriati» riesce a ricostruirsi una fisionomia accettabile lontano dall’isola, anzi tutti sembrano condividere quella condizione di non appartenenza che è comune ai migranti di ogni provenienza. L’ovvia nostalgia è accompagnata dal ripetersi di domande più volte ripetute: «Perché quelle persone, che avevano vissuto in maniera naturale in una vicinanza affettiva, aggrappate al loro mondo e alla loro appartenenza, impegnate per anni in un miglioramento personale e professionale decidevano poi di continuare le loro vite in un esilio nel quale non sarebbero mai più stati ciò che erano e non sarebbero riusciti a essere altro se non trapiantati con molte delle loro radici a rischio?».
Alle risposte sempre parziali non si accompagnano soluzioni esistenziali, e i personaggi di Padura non sperimentano la possibilità di riconciliare le due fasi della loro esistenza, restando piuttosto sospesi tra la difesa ostinata del proprio guscio cubano e una fuga mai del tutto soddisfacente.

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