Nel Trattato della pittura Leonardo, al paragrafo 185 (Precetto del comporre le istorie), al pittore che si appresta a concepire la disposizione del soggetto che intende raffigurare (“componitore delle istorie” come Leonardo lo designa) raccomanda: “componi grossamente le membra delle tue figure, e attendi prima ai movimenti appropriati”. L’attrattiva che una figurazione suscita, infatti, sta innanzi tutto nei movimenti appropriati, ossia nelle dinamiche ‘narrative’ che la motivano. Lo invita pertanto a “non membrificare con terminati lineamenti”.

Ovvero a non delineare subito in forma definitiva e compiuta la “istoria” che è il soggetto della sua pittura. Prenda il pittore esempio dai poeti e consideri che alla perfezione dei loro versi essi giungono per successive approssimazioni e cancellazioni, e che così operano “rifacendoli migliori”. Si tratta dunque di giungere a configurare perfetta e compiuta la propria invenzione (l’istoria) attraverso una definizione delle sue singole componenti che, ad una ad una, pervengano a formare così una appropriata coerenza dell’intero, evincendola e quasi, diremmo, portandola alla luce dalla originaria, fertile confusione del componimento inculto.

“Perché tu hai a intendere che, scrive Leonardo, se tal componimento inculto ti riuscirà appropriato alla sua invenzione, tanto maggiormente satisferà, essendo poi ornato della perfezione appropriata a tutte le sue parti”. Comporre, in pittura come in poesia, vale allora quale procedimento capace di fornire congruenze ad una farragine, appropriatezze ad una iniziale congerie. Celebri in proposito le parole di Leonardo: “Io ho già veduto ne’ nuvoli e muri macchie che m’hanno desto a belle invenzioni di varie cose, le quali macchie, ancoraché integralmente fossero in sé private di perfezione di qualunque membro, non mancavano di perfezione ne’ loro movimenti o altre azioni”.

La assenza di compiutezza – l’indeterminato, l’informe – come presupposto necessario a immaginare, a inventare (cioè a trovare) ‘perfezioni’ e ‘coerenze’ e ‘congruità’. È che nell’invenzione come regola di autonome appropriatezze non solo si rinviene il possibile, ma si escogita l’impossibile. L’impossibile congruo, coerente, compiuto. Tanto confacente e conforme che, quell’impossibile, si mostra icasticamente vero. Su questo tema delle scaturigini dell’invenzione e della sua verità, Leonardo insiste fino a dilungarsi sulla condotta che il pittore e il poeta han da tenere. “Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie de’ muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, o altri simili luoghi, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l’ingegno del pittore a nuove invenzioni sì di componimenti di battaglie, d’animali e d’uomini, come di varî componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perché saranno causa di farti onore; perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni”.

Mi piace, tra i molti riferimenti che potrebbero esser qui richiamati, indicare un testo che a me pare in armonia con i pensieri di Leonardo. Penso alla fantastica narrazione di Luciano di Samosata che si data intorno all’anno 165, Di una storia vera. Verissima invenzione che racconta d’un viaggio intrapreso per mare oltre le colonne d’Ercole fin quando un giorno, “verso mezzodì, un improvviso turbine roteò la nave, e la sollevò quasi tremila stadi in alto, né più la depose sul mare: ma così sospesa in aria, un vento, che gonfiava tutte le vele, la portava. Sette giorni ed altrettante notti corremmo per l’aria: nell’ottavo vedemmo una gran terra nell’aere, a guisa d’un’isola, lucente, sferica e di grande splendore”.

Di qui un susseguirsi di avventure. Combattimenti, paesi mirabili, esseri straordinari, piante e animali meravigliosi, e la città d’oro e smeraldi dell’isola dei Beati o quella “tutta balze e dirupi nudi” dove “le pene più gravi sono date a chi dice bugie, specialmente agli storici che non scrivono la verità, come Ctesia di Cnido, Erodoto, ed altri molti. Ond’io vedendo costoro, tutto mi consolai per me, ché io non so d’aver detto mai una bugia”.