Beautiful Losers non vuol dire belli e perdenti, come se bellezza e sconfitta fossero cose distinte, magari contraddittorie. Come spiega fin dal sottotitolo il libro di Silvia Albertazzi, Leonard Cohen Manuale per vivere nella sconfitta (pagina uno, pp. 235, euro 19,00) la sconfitta è piuttosto il punto di partenza: non si tratta di sopravvivere allo scacco ma di viverci dentro, e lì dentro trovare senso e, appunto, bellezza.
Quasi tutta la sterminata bibliografia su Leonard Cohen, scrive Silvia Albertazzi, «si potrebbe dividere tra opere in cui si insiste a tradurre il lavoro di Cohen nella sua vita… e altre in cui quello stesso lavoro finisce per essere tradotto nella vita di chi scrive». Non mancano in questo libro, quando necessari, occasionali rinvii biografici (per esempio, l’accenno, a proposito di Songs of Love and Hate a Cohen come «un trentaseienne incline alla depressione» – tratto che condivide con un artista così diverso come Bruce Springsteen. Però, se we want it darker, se cerchiamo le tenebre, anche Nebraska non scherza).

Silvia Albertazzi sa bene che quello che conta non è la vita dell’artista ma la sua opera, e che l’opera si legge nei suoi stessi termini e non tramite riferimenti esterni. Questo vale anche per un artista che fin dalle poesia semiadolescenziali è impegnato nella costruzione di una, o molteplici, «mitologia\e» personale – che peraltro è la narrazione\costruzione di un io poetico, lirico, narrativo – corporeo, mistico e spirituale – non necessariamente coincidente con l’io anagrafico. Perciò, in questo libro «il focus è sui testi, e il suo intento è riesaminare l’opera letteraria di Cohen», «dimostrare l’appartenenza di Coehn al mondo delle lettere e la sua importanza in un contesto di World Literature». La parola chiave, ovviamente, è «lettere» e «opera letteraria». Dal Nobel conferito a Bob Dylan in poi, si è scatenata la polemica sulla possibilità di includere simili artisti della parola e della voce, autori di testi in musica, nella ristretta categoria della letteratura.

A differenza di Dylan, Cohen stava nel mondo delle lettere già prima di stare in quello della musica. Così, Albertazzi scava dentro tutto il suo lavoro, a partire dalle poesie giovanili e quasi adolescenziali, passando per i due romanzi, fino alla grande produzione musicale che si chiude con You Want It Darker. In un certo senso, la struttura del libro contraddice la sua persuasiva tesi di fondo. Da un lato, il libro è diviso in tre parti, ciascuna delle quali tratta separatamente le tre forme di arte della parola in cui Leonard Cohen si è espresso: prima le poesie, poi i due romanzi, infine le canzoni. Dall’altro, tuttavia, mostra come in tutti e tre i generi prosegua sostanzialmente la stessa ricerca, imperniata su temi che si evolvono nel tempo (l’analisi è svolta sempre in forma cronologica) ma restano sostanzialmente gli stessi.
Sono molti i fili, tutti significativi, seguiti da Silvia Albertazzi: penso per esempio al rapporto disperato con la storia, il nuovo ordine mondiale come caos: «ridatemi il muro di Berlino, ridatemi Stalin e San Paolo, ho visto il futuro e non c’è nulla da misurare, è stato travolto l’ordine dell’anima» («The Future»: con echi di Underworld di Don DeLillo!); ma direi che il centro di tutto rimane l’inestricabile, irrisolto e pure inevitabile intreccio fra materia e spirito, corpo e mente, sessualità ai limiti dell’osceno (Beatiful Losers, naturalmente, ma «Chelsea Hotel # 2», per dirne solo una) ed esperienza e ricerca religiosa.

Quasi mai possiamo distinguere se Cohen stia parlando a una donna, a Dio, al lettore, a una parte di se stesso, perché si tratta comunque di un’uscita da sé verso l’altro (l’Altro?) che è anche l’unico modo per trovare un altro/Altro, l’umano e il divino, dentro di sé. Fra le figure privilegiate da Cohen spiccano quelle dell’incrocio e dell’incontro fra diversi e opposti: l’ossimoro (belli perdenti, appunto) e il chiasmo – l’incontro fra menti e corpi: «tu hai toccato il suo corpo perfetto con la tua mente, lei a ha toccato con la sua mente il tuo perfetto corpo» («Suzanne»); «non posso seguirti, amore mio / tu non puoi seguire me» («You Know Who I Am»), «dimentico di pregare per gli angeli e gli angeli dimenticano di pregare per noi» («So Long Marianne»).

Silvia Albertazzi dimostra con analisi testuali dettagliate e penetranti il valore poetico delle canzoni. Argomentare la pertinenza della canzoni a un canone letterario costituito ha un senso, ma andrebbe però anche riconosciuta la loro appartenenza a un canone poetico diverso. Per un giovane poeta che si è formato su modelli modernistici, che siano il Garcia Lorca di Cohen o il Rimbaud di Dylan, la musica impone una disciplina formale fatta di metro, rima o assonanza, ritmo; costituisce un limite che è anche sostegno, previene il rischio dell’eccesso, della retorica ornamentale, tiene a freno l’impulso affabulatorio ed effusivo del verso libero (confrontiamo gli scritti «poetici» di Dylan con le sue canzoni, per esempio).

Franco Fortini diceva che al cuore della poesia stanno anche, se non soprattutto, rigore, disciplina, ordine, controllo. La poesia e la musica sono maestre dure ed esigenti, ed è dura ed esigente la poesia che Leonard Cohen ci ha regalato grazie alla canzone: non saremo belli, dice, ma abbiamo la musica.