Sono pochi gli autori che in questo sgangherato paese si possono definire civili, ancora di meno tra quelli più giovani cresciuti nelle scuole di scrittura, vampirizzati dal marketing. Alessandro Leogrande, che ho sempre immaginato affettuosamente come un fratello minore, lo era in modo enormemente consapevole da sempre. Lui era diverso dai suoi coetanei, timido e fiero, aveva una serietà di intellettuale d’altri tempi, di tipo novecentesco, però innestata dentro una vitalità tutta contemporanea e con uno sguardo internazionale. Quello che mi ha sempre colpito di lui era una onnivora curiosità politica nei confronti delle grandi questioni, la tempra di reporter di razza, il migliore della sua generazione, il migliore di tutti, la grande capacità di ascolto e sensibile generosità che metteva nel lavoro culturale, soprattutto nell’esperienza straordinaria de Lo straniero, la rivista che aveva diretto insieme a quello che è stato il suo maestro, Goffredo Fofi.

Giovanissimo, sin dal suo libro d’esordio, Un mare nascosto e poi con Le male vite, avevamo capito subito di che pasta era fatto, la sua era una scrittura intesa come lenta ricomposizione di frammenti sconnessi, quanti ne servono per ricostruire un forte effetto di realtà con una idea massimalista di una narrazione della moltitudine. Dopo, aveva scritto Uomini e caporali (UE Feltrinelli), raccontando le vite maledette dei nuovi braccianti stranieri della Capitanata, la sua Puglia, dove era nato quaranta anni fa a Taranto, scenario di un altro suo libro indimenticabile, Fumo sulla città, e ancora Il naufragio sull’affondamento della Kater i Rades, la piccola nave albanese speronata dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana, 57 i morti, 24 i dispersi, 34 i superstiti.

Con La frontiera (Feltrinelli) aveva raggiunto una rara maturità stilistica, centrando uno dei temi nevralgici del mondo globalizzato, la linea invisibile che divide il pianeta, un luogo geografico, geopolitico, che è anche un immaginario mobile, le due opposte traiettorie di due mondi nettamente separati, l’Occidente opulento e consumistico del parossismo capitalistico, e un Sud del mondo povero, dilaniato dai conflitti bellici e senza democrazia.

Questo luogo eccentrico che così era descritto da Alessandro nel suo libro come «una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la frontiera». I raccontatori che incontra nei modi kapuscinskiani, perché non si limita a descrivere ma vuole spiegare, ognuno dei quali illumina una geografia e vive sulla «linea d’ombra» di Conrad, sono il giovane somalo Hamid, il camerunense Yvan Sagnet, l’enigmatico Don Mussie, l’eritreo in fuga Syoum, scampato al naufragio di Lampedusa, narratori di un mondo che molti occidentali non vogliono ascoltare.

Mentre tutti i suoi coetanei cercavano la via mondana del romanzo, Alessandro, lavorando sul campo e dal basso, con uno sguardo ad altezza d’uomo, riusciva a ridare vita al reportage narrativo in senso classico, con la perizia documentaria del giornalista d’inchiesta e le capacità del narratore nella tenuta stilistico-espressiva e nel disegnare una tramatura potente, nel tessere, montare e rimontare, intrecciando e ricucendo le tante storie tragiche e umanissime della Storia.

Una condotta unica che gli ha permesso scrivere in pochi anni alcuni libri fondamentali su come cambia il mondo, dalle parte degli ultimi, dei dannati della terra, siano essi lavoratori minacciati da violenti caporali, migranti che scappano da guerre civili, desaparecidos. Se ne occupava con serietà, passione, e il coraggio dei buoni.

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