Leo De Berardinis e Perla Peragallo hanno ripresentato in questo mese al Teatro in Trastevere i loro ultimi tre spettacoli. Attualmente, e fino al 4 novembre, danno De Berardinis – Peragallo, e proprio di questo, e di tante altre cose, abbiamo parlato con loro, in un bar dietro il teatro.

Voi siete uno dei gruppi di punta della cosiddetta avanguardia teatrale italiana…
Questa è una distinzione di comodo per i critici. Per noi è sempre stato teatro vero, teatro alternativo a quello di potere, e basta. Per noi avanguardia, anche in senso storico, è legata alla rivoluzione, e questo è stato il grosso errore di valutazione.
L’hanno chiamato d’avanguardia o sperimentale, un’altra terminologia inventata. L’arte non sperimenta, come diceva Picasso: «Io non cerco, trovo»; cercando, trovo. Non è che io cerco e basta. Noi siamo alternativi, non emarginati, semmai ci auto-emarginiamo, in senso positivo, però, facendo pesare la nostra estraneità alle cose pubbliche gestite in un certo modo.

È per questo che rimanete chiusi in un teatrino di Trastevere, mentre tanti vostri colleghi danno, con successo, la scalata ai grandi teatri…
Il nostro discorso è sempre stato politico; abbiamo deciso di scioperare, doppiamente. Contro i cosiddetti «prezzi politici»; ci sono Regioni che in modo fasullo dicono di fare un teatro alternativo; tanto per parlare chiaro, la Regione Toscana. Se vengono Leo e Perla devono fare un prezzo politico, perché è un teatro impegnato. Però chiamano Milva che recita le canzonacce e danno i soldi a lei. Ci isolano, come a dire che l’avanguardia è un’altra cosa, non ti danno i teatri grandi.

Che volete, la cantina allora?
No, lì c’è il teatro, vogliamo il teatro. Come a dire a un violinista, vuoi la chitarra? cose ’e pazzi. L’altro sciopero è nei confronti dei teatri pubblici e privati: tu direttore del Quirino, non puoi venire da me e offrirmi un mese al Quirino, no, tu mi devi proprio dare la gestione del Quirino, per due anni, allora io l’accetto, perché in quel caso io farei una politica teatrale che è mia.
Il grande teatro lirico all’italiana è la cosa che ci piacerebbe di più. Per un attore, lo strumento che ha è il palcoscenico: io in questi teatri piccoli non riesco a fare neanche così, che sbatto le mani contro i muri. Io ho sempre parlato dell’attore come di una specie di vapore, che si deve adattare a seconda degli spazi, espandersi e restringersi. Chi non ci riesce sono quelli che io chiamo scenografi, cioè Memè Perlini, Vasilicò, i muti di ogni genere, quelli che non ci hanno parola.

Continui nella polemica contro gli attori romani che non sanno che cos’è la fonazione?
’A fonazione? Ma quelli non sanno manco parlare. Quelli sono degli attori raccattati, comparse della televisione che vanno a recitare con Vasilicò e fanno il «laboratorio», come quello che sta facendo Gassman a Firenze per cercare nuovi talenti, tipo «Primo applauso» televisivo. Giancarlo Nanni almeno è simpatico quando fa «La fabbrica dell’attore» si mette a fabbricare attori, poi li vende, fa dei soldi e fa benissimo. Oppure la RegioneToscana che ha chiamato a far laboratorio quell’altro mmuorto polacco, Kantor.

Voi usate da sempre la musica nei vostri spettacoli, e ora sono in molti a usarla.
Il teatro è musica, molti anni fa abbiamo fatto una partitura del Macbeth, abbiamo inventato nuovi segni per poter annotare il suono, il respiro. Abbiamo sempre usato strumenti musicali in scena, per cui invece di dire «Ah» con la voce lo dico con un sax, oppure faccio un rullato sulla batteria. Il problema non si pone proprio: il teatro è sempre stato un ritmo di spazio e un ritmo di fonazione, anche Brecht che io non sopporto l’aveva capito e stracapito, per lui era un fatto scontato. Mo’ stanno attaccando Brecht, tutti quelli che prima dicevano «Ah Brecht, Brecht», in nome di chi poi, di Diego Fabbri, lo facessero in nome di Artaud.
Artaud, quello era proprio scemo, parlava bene e razzolava malissimo. Ho letto la sua regia ai Cenci e neanche Squarzina può pensare una cosa cosi bieca.

Il vostro teatro usando strumenti coltissimi, da Monteverdi a Mozart alla fonazione dodecafonica di Schönberg, approda a risultati schiettamente comici, popolari.
Popolare ma non nel senso di Dario Fo, cioè tu già capisci certe cose e io te le ribadisco. Esattamente il contrario, cioè usare i segni riconoscibili al pubblico, però ricomponendoli in modo che si sviluppino altre informazioni. L’importante non è capire lo spettacolo, ma averne qualcosa, usare un Monteverdi mentre però due stappabottiglie danno l’immagine di due colombe morte, fa ridere. Quindi anche Monteverdi come notazione non è più colta ma solo battuta teatrale.

Come si inserisce Filumena Marturano nel vostro De Berardinis – Peragallo?
Noi si voleva fare Filumena Marturano per intero meglio di come possa farla Eduardo, almeno per la regia. Ma era troppo costoso e l’idea si è trasformata fino a diventare soltanto una citazione, un rimpianto di una possibilità di teatro, ed è per questo che recito al megafono, che Perla sviene di tanto in tanto, ma non è una parodia. È come se avessi trovato nel 3000 queste tre pagine stracciate e avessi tentato di ricomporle.

I vostri spettacoli sembrano svilupparsi come i cerchi nell’acqua quando ci butti un sasso. Da dove viene quel sasso che crea in scena amplificazione e ripetizione?
In questo spettacolo era la convinzione di poter fare finalmente un teatro-jazz e allora non c’era bisogno di mettere il titolo del pezzo perché se io vado a sentire Ornette Coleman non c’è bisogno di sapere quello che suona. C’è Coleman, e allora De Berardinis-Peragallo, ci stanno loro due li andiamo a vedere.
Questa volta siamo riusciti a elencare una serie infinita di battute che ognuno poteva dire quando cazzo vuole, come le note, diventava veramente improvvisazione sennò è happening all’americana, salsicce alla Festa dell’Unità. Improvvisazione jazzistica per cui a una nota deve corrispondere un’altra o non corrispondere, così una battuta deve rispondere alla risposta, solo che qui invece delle note ci sono le intonazioni e le parole, le intonazioni sono il modo di dirle e il timbro, le parole sono le note: come stai? Non ti rispondo, diventa un silenzio, una pausa jazzistica di un certo tipo, tututumm.

(28 ottobre 1979)