La mostra Lo stupore della materia. Il teatro di De Berardinis – Peragallo (1967/1979), aperta fino a venerdì 12 aprile presso il milanese Gucci Hub di via Mecenate, nasce dall’incontro insolito tra mondo della moda e studiosi di teatro. Da una parte, all’origine dell’impresa c’è la passione per la coppia Leo-Perla di un’altra coppia, quella formata da Alessandro Michele e Giovanni Attili, il primo mente creativa della maison Gucci, il secondo urbanista con un passato da allievo presso il Mulino di Fiora dove Perla Peragallo faceva da «levatrice» e da «sobillatrice di libertà e di profondità» per aspiranti attori. Michele ha voluto rendere omaggio al sodalizio tra i due «dioscuri del teatro italiano» durante le recenti sfilate parigine primavera/estate 2019 proiettando un montaggio di frammenti tratti dal film A Charlie Parker (1970). Ma il suo omaggio non si è limitato a ciò, rendendo possibile il realizzarsi di questa esposizione curata da Gianni Manzella e Enrico Pitozzi a partire da materiali di archivio che Manzella raccoglie fin dai tempi della monografia dedicata a De Berardinis La bellezza amara (1993) e sui quali un gruppo di ricercatori (tra cui Pitozzi e Annalisa Sacchi) si sta cimentando nell’ambito del progetto INCOMMON che indaga le trasformazioni del teatro in Italia tra il 1959 e il 1979.

ENTRARE oggi in contatto con il lavoro di «Leo e Perla» significa confrontarsi con un’esperienza dirompente che interroga alla radice il nesso tra poetica e politica, tra l’arte e il suo tempo. La mostra accoglie i visitatori in uno spazio bianco, è il bianco dell’essenzialità a cui si approda dopo il travaglio, dopo un lavoro rigoroso in levare in cui non si fa più nulla che non sia assolutamente necessario. Gli elementi dell’allestimento rinviano alle scene e al linguaggio degli spettacoli di Leo e Perla: i teli bianchi, le lastre di polistirolo e il jazz diffuso nell’ambiente espositivo, scomposti come a formare una grammatica espositiva atta a porgere il documento, la memoria.

IL BIANCO della sala è dunque il simbolo di un percorso compiuto che la mostra racconta scandendolo in tre periodi: il primo, sviluppatosi nell’arco cronologico 1967-1970, vede nascere le prime creazioni (cine)teatrali dei due da La faticosa messinscena dell’Amleto di William Shakespeare, in cui i frammenti filmici furono realizzati con la complicità di Alberto Grifi, al film A Charlie Parker interamente realizzato dai due ormai a proprio agio con il linguaggio delle immagini in movimento, a loro modo antitesi e complemento del teatro. Se, come scrivono in un documento dattiloscritto del 1967/68 intitolato Amleto, Macbeth, Watt (in mostra grazie all’archivio della famiglia di Edoardo Fadini, il critico e organizzatore che li fece debuttare a Torino con l’Unione culturale) «la macchina da presa o il registratore non sono dei mezzi per esprimerci ma un modo per interrompere, gelare»: ecco che il cinema diventa il mezzo per esprimere il gelo della morte e dell’estraneità con cui è costretto a fare i conti l’Amleto. Sono quelli anche gli anni del Don Chisciotte con De Berardinis complice di Bene, fase documentata in mostra da un servizio Rai. Anche De Berardinis prende chiare posizioni polemiche, sia contro il contesto conservatore dell’epoca sia anche contro un’avanguardia di maniera, di consumo, tanto priva di vita da fingerla.

È IN OPPOSIZIONE all’asfissia di un ambiente teatrale vissuto come «errore», incapace di un corpo a corpo con la realtà, che Leo e Perla si allontanano da Roma. Il secondo periodo è quello degli anni 1971-1976 in cui i due si trasferiscono a Marigliano (Napoli) per un esperimento di auto-decentramento che non ha nulla di populista ma che intende confrontarsi con la possibilità o con l’impossibilità dell’incontro fra proletariato e intellettuali. La loro masseria diventa il luogo di ritrovo di tutti gli irregolari della zona alcuni dei quali iniziano a prendere parte al lavoro espressivo della coppia. Nascono allora O’ zappatore che, come scrive Manzella ne La bellezza amara, rappresenta «l’oscillazione insanabile fra il rifiuto di un mondo ‘ignobile’, da distruggere, e il cedimento al fascino di una cultura che sarebbe troppo facile affrontare solo con le armi dell’irrisione». Seguono King lacreme Lear napulitane che tenta ancora una volta di «ricongiungere disperatamente due culture» ma finisce per esplodere nella cupezza di Sud. Questa fase, che ha come strascichi Chianto ‘e risate e Rusp spers è raccontata attraverso alcune fotografie di scena, un video dell’emittente Telemarigliano che documenta la processione del santo locale a cui i due parteciparono trasformando la parata in un happening dionisiaco e, soprattutto, i quaderni su cui Perla annotava tutto degli allestimenti. Questi quaderni fitti di scritti, annotazioni, disegni, commenti ironici sono forse quanto di più interessante e palpitante offre la mostra, altrimenti un po’ algida nel suo eccessivo rigore in bianco e nero.

IL TERZO periodo è quello che prima riporta i due a Torino (dall’Unione culturale al Cabaret Voltaire, sempre con Fadini) e poi a Milano con un consuntivo del loro lavoro mariglianese, poi dà forma ad Assoli e ad Avita murì in cui ancora una volta si racconta il sottoproletariato degradato ma con un tono che non rinuncia alla farsa, alla parodia attingendo anche al repertorio di una tradizione continuamente rinnovata e reincarnata: l’opera e il jazz, Rimbaud, Charlie Parker, Eduardo, Totò, Shakespeare, Ginsberg, Baudelaire, Artaud. Per finire con la loro separazione.

Invitato alla tavola rotonda organizzata ieri a Milano in concomitanza con la mostra, lo storico del teatro Gigi Livio ha esposto quella distinzione sottile ma sostanziale tra «museo» e «museificazione» che va sempre ricordata da chi intenda tener vivo – anche in un museo – l’empito libertario di un’arte come quella di Leo e Perla, un teatro di contraddizione apparentemente effimero e consegnato al passato che può invece aprire ancora oggi inedite frontiere del possibile.