Leopardi, rompicapo per l’interpretazione critica e campo di battaglia nel percorso filosofico italiano del Novecento. Progressista o rivoluzionario? Materialista, nichilista, democratico? Ottimista o pessimista? La filosofia italiana del Novecento ha scoperto nel poeta recanatese il volto del proprio secolo, a partire dallo «spartiacque» segnato, nel 1947, da due pubblicazioni: La nuova poetica leopardiana di Walter Binni e Leopardi progressivo di Cesare Luporini. Spartiacque «vero e proprio», come segnala Massimiliano Biscuso nel suo Gli usi di Leopardi, edito per Manifestolibri (pp. 224, euro 22).

CI SONO un prima e un dopo divisi dall’«evento-1947» – prima, un Leopardi ottimista della critica fascista, nella versione vitalista di Tilgher o in quella religiosa di Vossler; dopo, un Leopardi problematizzato, rompicapo appunto, progressista in Luporini, democratico in Timpanaro, sovversivo in Negri. In questa «caosmosi filosofica», dove i piani teoretico, morale e politico si intrecciano e si confondono, è difficile muoversi con la lente della critica letteraria, individuando in questi modi di concepire l’opera del poeta recanatese delle categorie interpretative.
Il prima e il dopo 1947 sono quindi anche un prima e un dopo politici: Binni e Luporini strappano Leopardi dal «leopardismo e antileopardismo» dei primi trent’anni del XIX secolo che segnalavano lo schieramento, rispettivamente, dei fascisti contro i liberali, dei vitalisti contro gli idealisti, religiosità contro razionalità moderna. «Per chi, invece, non si è lasciato affascinare dalla conclusione nello scacco e nel mistero, la crisi è apparsa premessa del riscatto, pensato nella forma del rinnovamento radicale, della trasformazione decisiva, dell’opportunità di ricominciare l’opera di civilizzazione dalle fondamenta», continua sempre nell’introduzione Biscuso.
In Luporini, Leopardi appare prima come «pienamente nichilista», predecessore di Heidegger, nella misura in cui però la Stimmung fondamentale non è l’angoscia bensì il dolore. Nell’uso progressista di Luporini, inquadrato da Biscuso nell’immediato secondo dopoguerra, il nichilismo leopardiano non è assoluto, ma funziona assieme al vitalismo, rapporto che definisce «attualissimo il messaggio di Leopardi».

IL SECONDO ELEMENTO della critica marxista italiana dell’opera del recanatese è da situare in Timpanaro, inquadrato da Biscuso nella «spinta a riflettere sui mali dell’uomo e a combatterli». Si apre così il capitolo a esso dedicato: «mi ha appassionato per ciò che non c’è in Marx né in altri». Quel che non c’è in Marx è appunto il doppio progresso (storico-sociale, ma anche biologico) – il marxismo, in particolare quello gramsciano, tende a identificare il secondo come sintomo del primo. Problematizzare, invece, questa duplicità dei progressi significa riconoscere l’apertura infinita della rivoluzione come processo sempre da compiere e mai già finito. Leopardi è allora una possibilità di rottura con il programma di Gramsci, «scorgeva invece i rischi di limitare la “spontaneità della cultura del proletariato”».

Questi elementi ritornano, seppur differenti e anche stravolti, nella riflessione di Negri che ne è «la punta estrema», per quanto distante dalle «speranze di una nuova fase storica» di Luporini e dallo «sforzo eversivo del Sessantotto» di Timpanaro. Lenta ginestra, che «si rivolge ai non pentiti», è dunque un libro «unzeitgemäß, fuori tempo, contro il proprio tempo, per un tempo a venire», che Biscuso individua come anticipazione di rompicapi che, appaiandosi come la riflessione spinoziana, apriranno al tempo della moltitudine.

NEGRI traccia una cesura netta con la visione dialettica di Leopardi che lo aveva preceduto – il recanatese è un «anti-Hegel», «un sovvertitore dell’essere». Inoltre, il progressismo (sia di Luporini che di Timpanaro) è rotto da Negri: la prima lettura è eliminata con il rovesciamento dell’interpretazione anti-progressista delle «magnifiche sorti e progressive», la seconda è annullata nell’assunzione del «materialismo come ontologia della seconda natura». L’inattualità del Recanatese ne fa un campo sempre aperto, un dispositivo che il pensiero può sempre fare proprio per affrontare il proprio tempo, esserne all’altezza.