Sono passati cinque anni da quando un pezzo di territorio italiano è divenuto off limits ai cittadini della Repubblica. Qui, si parla di una stretta valle laterale della val Susa, la val Clarea: un territorio impervio scelto molti anni fa quale sede del cosiddetto cunicolo geognostico di Chiomonte.

La decisione di piazzare un semplice tunnel esplorativo in una sede naturale molto difficile da raggiungere fu il primo passo di una politica secondo cui la linea ad alta velocità Torino – Lione doveva essere programmata dal Ministero degli Interni.

La comunità valsusina non ha appoggiato il passaggio di campo del suo ex capo popolo Antonio Ferrentino: nessuno ha seguito la conversione dell’attuale consigliere regionale del Partito Democratico, avvenuta in virtù di un “cambio di tracciato”, spostato dalla riva destra a quella sinistra del fiume Dora. Perché non è rimasta intimidita dalla repressione operata dalla procura di Torino, e rimane un ostacolo insormontabile con cui non è possibile una forzatura.

Da qui la decisione di spostare i cantieri in zone impervie, aumentare l’inquisizione, offrire prebende: il tutto nella speranza che, prima o poi, il fuoco della contestazione si spegnesse. Delle tre scelte la prima è sempre salda, la seconda sta sparando le ultime disperate cartucce con la restrizione di misure cautelari verso i settantenni e la terza è rimasta lettera morta: le famose compensazioni non sono che chimere.

Come ben evidenziato dall’unico comune della valle che ha accettato il cantiere, Chiomonte, la cui amministrazione comunale nel 2015 dichiarava: «Il paese è in declino anche per colpa del cantiere. Ora le compensazioni».

Il lavoro quindi principale di questi tempi rimane capire dove ubicare i cantieri affinché non siano raggiungibili dai contestatori.

Di questi giorni è la novità secondo cui Telt (la società pubblica italo-francese che sta progettando l’opera) avrebbe deciso di costruire un secondo cunicolo da affiancare all’attuale tunnel geognostico finalizzato a valutare se lo scavo della galleria di base è tecnicamente fattibile. Una volta giunti nel ventre della montagna si formerebbe una sorta di “T” e la talpa procederebbe verso l’Italia.

Sbucati a Susa dopo anni di scavo, i proponenti farebbero una specie di “cucù” al movimento. La situazione sarebbe questa: in Italia sarebbero stati scavati appena 12 chilometri di una delle due canne del tunnel; in Francia non si sa, probabilmente zero.

Da qui al quel lontano giorno molti passaggi dovranno essere superati. In primis quello relativo ai costi, grande enigma che da sempre circonda la Torino – Lione.

Le pasticciate affermazioni del ministro delle Infrastrutture Graziano del Rio di una «rivisitazione del progetto per contenere i costi» segnano un arretramento ideologico che indica la scarsa propensione di questo governo a seguire l’opera, ma non ne intaccano il cuore: il tunnel di base. Cinquantasette chilometri nel cuore della montagna che collegherebbero Sain Jean de Maurinne a Bussoleno.

Dato il disinteresse francese all’opera, conclamato nel 2013 con la decisione della Commissione Governativa Mobilitè 21, che rinvia le decisioni sulla realizzazione della loro tratta nazionale a dopo il 2030, il governo Berlusconi dovette ratificare la scelta italiana di accollarsi il grosso dei costi, fatta al momento della firma dell’Accordo IT FR del 2001 dall’allora ministro Bersani. Questo nonostante il fatto che il tratto transfrontaliero si sviluppi per dodici chilometri in territorio italiano e per ben quarantacinque in quello francese.

Nel gennaio del 2012 il costo della sezione internazionale fu fissato a 8,6 miliardi di euro, ovvero meno di un terzo del costo complessivo della Torino – Lione, pari a 26 miliardi di euro. Tale preventivo è stato approvata nel Protocollo Addizionale firmato a Venezia l’8 marzo 2016.

Secondo un’analisi prodotta da RFI e riportata dal Sole 24 ore del 24 ottobre 2014, sommando gli oneri addizionali agli 8,6 miliardi si giungerebbe alla cifra di 12 miliardi di euro.
Nel caso in cui la UE finanziasse l’opera per il 40%, onere massimo, in base agli accordi previsti l’Italia spenderebbe 4,1 miliardi di euro e la Francia poco più di tre. L’Italia, pur di fare l’opera, paga un pezzo di tunnel alla Francia.

Che l’economia del paese necessiti di politiche keynesiane è fuor di dubbio. Ma Keynes quando parlava di buchi da scavare per il semplice fine di spendere soldi pubblici faceva un’allegoria, non è da interpretare alla lettera. Anche perché si dovrebbe discutere del sistema bancario in corso e della sovranità del debito pubblico di un paese, mettendo in evidenza che oggi traballa lo stesso concetto di “spesa pubblica”.

La rivisitazione progettuale annunciata dal ministro Graziano Delrio e l’assenza di una progettazione adeguata francese sul proprio territorio rendono il tunnel di base, il piatto forte economico dell’intera vicenda Tav, elefantiaco rispetto alle necessità trasportistiche. Prova ne è che l’attuale linea del Frejus risulta ben lontana dall’essere satura, anche perché recentemente ammodernata e quindi in grado di trasportare ogni tipo di sagoma, anche le più voluminose.

La cancellazione della tratta torinese di corso Marche, un tragitto che avrebbe sconvolto la città per venti anni, rende enigmatico il percorso delle merci oltre la stazione di interscambio di Orbassano. L’attuale passante ferroviario cittadino non può ospitare determinati carichi pericolosi e quindi le merci dovrebbero puntare verso sud, in direzione Alessandria.

Ma questa linea risulta tecnicamente antiquata e non in grado di reggere il flusso, sempre che vi sia, del nuovo tunnel di base. La Torino – Lione dovrebbe quindi battersi direttamente con la fisica, secondo cui la portata massima di una sezione è quella del suo punto più stretto. Per quanto sia la “strategica” per eccellenza ne uscirebbe in ogni caso sconfitta. L’utilità della Torino – Lione rimane un enigma avvolto da un mistero.