Risentimento e prensilità dello sguardo sono le due principali eredità che V. S. Naipaul ha derivato dell’ambiente in cui è cresciuto, per poi depositarle nel suo carattere e filtrarle nei suoi libri, soprattutto quelli che restituiscono i ricordi dei luoghi di infanzia e delle molte geografie nelle quali ha più tardi viaggiato, con la curiosità dell’emigrato accompagnata dalla consapevolezza che consegnare una prospettiva a quanto cade nel proprio campo visivo è il primo passo per organizzarne il ricordo. Del resto, è plausibile che Naipaul abbia cominciato molto presto a incamerare immagini, guidato dal retropensiero di usarle in seguito, perché il suo destino di scrittore si decise quando era ancora un bambino: non grazie alla precoce evidenza del suo talento – ha raccontato egli stesso in un testo raccolto da Adelphi sotto il titolo I coccodrilli di Yamoussoukro – né perché avvertisse chissà quale urgenza espressiva, ma perché la professione di scrittore si accompagnava «a una fantasia di nobiltà». Suo padre, un uomo del quale Naipaul ha parlato più volte con evidente commozione, era stato probabilmente il primo scrittore della diaspora indiana, il primo a raccontare la cieca ostinazione contadina con la quale tutti loro si sforzavano di riprodurre le usanze e i riti che si erano lasciati alle spalle, senza volere conoscere nulla del contesto al quale erano approdati, in atmosfere mortificate da «una forma di morìa letteraria».
La famiglia di Naipaul emigrò dalla pianura del Gange e insieme a diversi esuli indiani fondò dall’altra parte del mondo, a Trinidad, una comunità «più omogenea di quella che Gandhi conobbe nel 1893 in Sudafrica, e più isolata dall’India»: così raccontava in Una civiltà ferita (Adelphi) confessando quanto fosse ancora «difficile» per lui un paese come l’India e quanto gli fosse estranea la sua immobilità culturale: quella irredimibile stasi era assicurata dalla neutralizzazione delle identità individuali nel sistema dei rituali religiosi, nell’identità di casta, in una povertà «più disumanizzante di qualsiasi macchina», in una sofferenza che si traduce in virtù e insieme in una forma di remissività che inclina talvolta al parassitismo: tutto sotto il segno dell’obbedienza che l’India chiede, e sembra ottenere dai suoi uomini, fin troppo di buon grado.
Dai viaggi di Naipaul sono derivate centinaia di descrizioni tra le più acute che la letteratura contemporanea conosca, ma anche traslazioni narrative divenute celebri: meno di sessanta ore di permanenza in quella che si chiamava ancora Stanleyville furono per esempio sufficienti a V. S. Naipaul per ricostruire l’atmosfera sospesa della città situata Sull’ansa del fiume (Adelphi), il suo romanzo più celebre, datato 1979 (già uscito nel 1982 da Rizzoli, e nel 1995 da Mondadori con il più evocativo titolo Alla curva del fiume). L’ambientazione è sulle rive del Congo, il rimando a Cuore di tenebra sembrerebbe implicito, eppure Naipaul disse di non avere pensato un solo istante al romanzo di Conrad, che non amava perché vi leggeva una scissione dello sguardo: «da una parte l’osservatore, dall’altra il narratore che trasforma in finzione quel che scorre sotto i suoi occhi». Ricongiungere sulla pagina i frammenti di visione catturati dalla retina e rieleborarli in quel complesso intrico mentale formato da ricordi e appunti dal presente era forse l’esercizio nel quale si immergeva con più partecipazione, e tra i suoi libri Una casa per Mr. Biswas, Guerrillas, L’enigma dell’arrivo, Una via nel mondo sono eterogenee testimonianze di una originalità narrativa tradotta spesso in qualità letterarie ammirevolmente alimentate da quei veleni umorali che, a volte, hanno spostato sull’uomo la concentrazione che avrebbe dovuto essere riservata esclusivamente allo scrittore.
Mancavano meno di due anni alla consacrazione di Naipaul con il Nobel per la letteratura, quando per la prima volta fu annunciato il suo arrivo in Italia, nel giugno del 1999: sarebbe poi tornato a più riprese, dando sfoggio di idiosincrasie che scoraggiavano la richiesta di interviste, e anche allora l’incredulità legata alla sua promessa apparizione si cominciò a riflettere in un generale scompiglio. Appena arrivato a Torino, Naipaul fece sapere che esigeva di prendere visione delle domande che i giornalisti intendevano fargli: lo fece sapere la notte prima dell’unico giorno disponibile a incontrarlo, e questa fu la sola intervista che si rassegnò a concedere, ora raccolta nel libro titolato Maestri di finzione (Quodlibet, 2014) che riproponiamo qui perché è una delle rare occasioni in cui Naipaul si dispose di buon grado a parlare di sé.

Forse, dovendo isolare una costante nella sua opera, potremmo individuarla nel senso di vuoto che pervade alcuni tra i personaggi più significativi. Una sorta di smarrimento, in loro, fa seguito a qualsivoglia forma di impegno, sia esso ideologico e dunque politico, che emozionale. Anche quando le speranze più remote sembrano realizzarsi e un senso di pienezza subentra al disincanto, la sensazione del vuoto è in agguato.
Questo sentirsi costantemente frustrati è qualcosa che deriva ai miei personaggi da una irrisolta realizzazione di sé. Almeno tre dei miei libri di fiction sono percorsi da questo tema: In uno stato libero, Guerrillas e Alla curva del fiume, che andrebbero perciò letti in relazione tra loro. Certo, la rabbia che investe i diversi personaggi non ha né la stessa intensità, né le medesime origini; tuttavia ha un minimo comune denominatore, e esso sta nei condizionamenti imposti da società fortemente ritualizzate. Quando tutto sembra essere già previsto dal contesto, le persone attraversano le emozioni non come fossero esperienze individuali, bensì accidenti per i quali non è prevista soddisfazione alcuna. Nei miei primi libri, per esempio, anche le relazioni sessuali occupavano uno spazio pressoché inesistente, non erano investite dallo sguardo soggettivo dei diversi personaggi e si presentavano come perfettamente prevedibili e non interrogabili.

Invece, sia in «Guerrillas» che in «Alla curva del fiume» la relazione che lei stabilisce tra la pienezza del desiderio e un senso di assenza è molto forte. Le parole del protagonista di «Alla curva del fiume» sembrano emblematiche: sebbene si senta per la prima volta appagato nella sua passione per una donna lungamente desiderata, tuttavia così riflette: «La soddisfazione non scioglieva nulla; apriva solo un nuovo vuoto; una più viva necessità».
Sì, la figura del protagonista in questo libro è interessante perché nel suo passato ha conosciuto solo commerci sessuali con prostitute; così, quando incontra la sofisticata Yvette, fare l’amore con lei è una vera rivelazione, una scoperta che gli fa perdere il controllo sulla sua intera vita. Ma dopo avere finalmente raggiunto una soddisfazione sessuale mai conosciuta prima, vede il grande vuoto che ha occupato il suo passato e una rabbia immane lo assale. Si accorge che la sua è una fame che non può essere saziata, è in preda a una sorta di delirio, vede il futuro dispiegarglisi davanti ma allo stesso tempo gli sembra che non ci sia speranza: ha il terrore di perdere quel che gli si è rivelato.

Qualcosa di molto diverso accade in quelle pagine di «Guerrillas» dove la protagonista provoca incontri sessuali violenti, come fossero un ennesimo approdo per la sua inquietudine, per la noia che la assale. E anche lei, naturalmente non trova soddisfazione…
Lei crede che sia in gioco soltanto la noia di una signora viziata? Io vedo la protagonista di Guerrillas come una donna mossa dall’esibizione di sé, da una fortissima vanità. Per molti il sesso è qualcosa che pare loro dovuto; gran parte della umana infelicità deriva da relazioni insoddisfacenti. Eppure, tutto questo è stato reso enormente triviale da tanti film, così come da molta letteratura che ruota intorno alla passione fisica. Del resto, io stesso sono stato in grado di affrontare nella scrittura un incontro sessuale soltanto dopo avere trovato una mia personale realizzazione, che per anni mi era mancata. Da questo punto di vista, la mia vita era un vero fallimento. Poi qualcosa è successo, improvvisamente. Ed è stato allora che l’incontro sessuale è diventato un elemento narrativamente molto importante, anche se lei avrà notato che lo descrivo solo per accenni. Sono stato molto attento a non usare dettagli troppo crudi, ho cercato più che altro di suggerire, senza usare parole forti. «Nudi», ecco il termine che a tutto il resto allude, nulla di più. Del resto, Guerrillas è prima di tutto il romanzo di un assassinio; un omicidio concepito nell’arco di due incontri sessuali, entrambi privi di soddisfazione.

Forse, se così a lei sembra, le scene di amplesso saranno poco crude, ma alcuni dialoghi manifestano da parte dell’uomo uno sconcerto assai perturbante: più di una volta si ritrae dalla avidità di lei, dalla sua insaziabilità. «I tuoi occhi urlano» le dice. E certo, la violenza dell’epilogo è sconvolgente. Dopo un avvio lento, il romanzo approda a una scena atroce: l’amante della donna la solleva per il collo e la offre come vittima sacrificale alla vendetta dell’amico: «Guarda Bryant, il topo! – gridò – Ammazzalo».
Oh è orribile, tremendo davvero. Ricordo che ero così sconvolto da questa scena, che sul manoscritto la mia grafìa si faceva via via più piccola. Potevo appena fissarla sulla pagina tanto la scena mi tratteneva. L’omicidio ha luogo in una comune agricola, e il posto dove i due amici intendono nascondere il corpo della donna è una latrina. Ma non ho potuto fare altro che alludere a questa intenzione: descriverla sarebbe stato davvero insostenibile.

Tuttavia, è una scena letterariamente molto ben risolta, e assai godibile alla lettura…
Sì, ma davvero non so dove ho trovato il coraggio di concepire un simile assassinio e poi arrivare a descriverlo. Vede, lì è come se qualcuno morisse davvero, si sente una vita che si estingue; al confronto, gli omicidi delle detective-story sembrano uno scherzo. Ma non è il mio solo libro violento: avevo già scritto In uno stato libero, un romanzo ambientato in Africa, dove l’esito della rabbia è davvero terribile, e trasforma in fiction quello che era un mio reale stato di frustrazione. In Guerrillas, invece, la violenza è l’approdo narrativo di una soddisfazione personale finalmente raggiunta.

Al contrario, l’incanto di cui si nutre l’atmosfera che avvolge «Alla curva del fiume» è piuttosto all’insegna del languore. È d’accordo?
Languore? Sì, capisco. Le dirò che alla base di tutto c’è una esperienza di viaggio in Congo molto intensa, la cui durata non ha superato le sessanta ore. Arrivai a Kisangani proprio quando Mobutu stava per incontrarsi con il presidente del Ruanda. Tutte le stanze d’albergo erano state monopolizzate, perciò dovemmo andarcene. Ma nel breve arco di tempo che intercorse tra il mio arrivo e la partenza, ogni frammento di quel che mi passò sotto gli occhi – quella città affacciata sul fiume, la sua gente, il clima che si respirava – tutto confluì a nutrire la narrazione di Alla curva del fiume.

Tutti i suoi libri esibiscono una relazione molto stretta tra i luoghi in cui sono ambientati e il ritmo dell’intreccio, tra il contesto e il carattere dei personaggi. È importante per lei questa compenetrazione di luoghi, civiltà, climi, persone, destini. Non è vero?
Senz’altro, e in questo mi sento molto diverso da tanti scrittori appartenenti alla geografia dell’impero coloniale inglese. Per molti di loro, l’ambientazione esterna non è che uno sfondo, i personaggi la attraversano senza esserne segnati, senza farsene condizionare. In questo, devo riconoscere che Conrad è diverso tanto da Kipling quanto dall’ultimo Somerset Maugham. I personaggi messi in scena da Conrad siamo portati a vederli come persone reali, restituiti al loro contesto, con le loro storie ben ambientate. Nulla di tutto ciò nello sguardo imperialista degli ultimi racconti di Maugham. È incredibile quale svolta abbia subìto la sua scrittura dopo gli anni ’20 e ’30: l’approccio narrativo di allora sembra svanire magicamente nel dicembre del ‘41 e la sua visione diventa improvvisamente banalizzante. Viaggia, poi ritorna, e nel passaggio al racconto forza quel che ha visto, lo semplifica, lo rende triviale. Io non ho affatto ereditato, come scrittore, la prospettiva dell’impero coloniale; ho una intima necessità di compenetrare ambiente e personaggi, sia nei romanzi che nelle narrazioni dei miei viaggi. Non sono tanto i luoghi, le geografie in sé a conquistare il primo piano nei miei libri di viaggio, ma le persone. Talvolta è meglio avere a che fare con esperienze realmente accadute, persone davvero incontrate; è un modo di passare attraverso momenti significativi della propria vita per consentirsi di mettere a fuoco alcuni passaggi storici, diverse fasi dell’evoluzione culturale di una civiltà che ci sta a cuore.

Chiudiamo sul suo primo libro. «Miguel Street» è stato scritto nel ’55 e pubblicato nel ’59, quando il suo rapporto con la nativa Trinidad era ancora molto intenso. Che relazione corre, qui, tra i ritmi della scrittura e quelli del calypso?
È vero che il libro utilizza i suoni del calypso come pure diversi dialetti, ma il modo in cui l’eco di questi elementi si riproduce nella scrittura non è affatto mimetico. Il risultato è del tutto originale. Ho dovuto lavorare a lungo per trovare il giusto tono di voce, quello che lei chiama «il ritmo». E le sorgenti di questo tipo di scrittura sono state due: il romanzo picaresco inaugurato dal Lazarillo de Tormes, un libro che ho molto amato per la sua profonda ironia, e che ho tradotto per mio privato piacere; e i racconti di mio padre, lo humor del suo sguardo sulle nostre radici.