Jongsu vorrebbe fare lo scrittore ma come confiderà all’amico (fidanzato?) della ragazza di cui è innamorato non capisce «l’enigma del mondo». Lei si chiama Haemi, l’ha rimorchiato allegramente sfacciata davanti al negozio in cui lavora offrendogli il numero vincente della lotteria: un orologio sportivo rosa da ragazza – «E tu ce l’hai la fidanzata?» – gli ha chiesto prima di andare a cena insieme. Ma la serata finisce con lei che dorme sul divanetto del ristorante, e poi lo conosceva già, erano compagni di scuola alle elementari solo che lui la trovava brutta e non l’ha riconosciuta. Invece Haemi è molto seducente, e il ragazzo perde la testa subito ma lei sta per partire per l’Africa e voleva qualcuno per badare al suo gatto, forse immaginario o forse davvero autistico – come dice lei. Faranno l’amore nella stanzetta senza luce della ragazza che gli ha detto o di avere fatto la plastica facciale, per questo è bella oggi.

Dalle prime inquadrature – Lee Chang-dong dispiega un’ambiguità: niente è quello che appare, nemmeno il gatto, in quell’«enigma del mondo contemporaneo che il cineasta mette al centro del suo nuovo film, Burning – in sala grazie a Tucker film – ritorno al cinema dopo molti anni di silenzio (il precedente Poetry è del 2010). Il punto di vista narrativo è quello del ragazzo, Jongsu, – con la sua aria un po’ stupefatta, quasi ebete, che mentre fa sesso sposta la sua attenzione verso la luce sul muro: possibile?

OCCHI sgranati e bocca semiaperta sembra non capire bene cosa accade intorno a lui – e Yoo Ah-in, star di film commerciali in Corea del sud sa abbandonarsi con ogni muscolo espressivo al ruolo. Povero, la vecchia casa di famiglia quasi in rovina, la madre che lo ha lasciato quando era piccolo fuggendo dalle botte del padre, è pure lui un enigma: solitario e impenetrabile, è solo un tipo goffo o invece ha in sé qualcosa di distorto, qualcosa che brucia? Quando la ragazza torna non è sola, con lei c’è Ben, giovane ricco e misterioso, una specie di Gatsby coreano che per vivere – così racconta a Jongsu, dà fuoco ai granai. Lo sta prendendo in giro o ha invece acceso i suoi fantasmi?
Si forma un trio – ma assai lontano da Jules e Jim – in cui le rivalità tra i due uomini assumono forme impreviste. Poi la donna scompare quasi hitchockianamente. Rimangono gli uomini: dunque? Ma questo è quanto vede Jongsu, noi siamo dentro i suoi occhi, nella sua mente, gli accadimenti ci appaiono attraverso la lente delle sue emozioni e invece che certezze ci suggeriscono dubbi, spaesamenti, ci dicono che appunto niente è come sembra.

«IL MALE – dice il regista – è divenuto più chic, più seducente, più accattivante, la contemporaneità non permette distinzioni nette». Porsche (il nuovo fidanzato) contro pick up (il vecchio compagno di scuola)? Ovvero il divario di status che è ricorrente nel cinema sudcoreano a dirci di un cinismo che si fa oppressione, e che la regia di Lee Chang-dong fa affiorare magnificamente nel dualismo interni/esterni con cui disegna le geografie sociali della capitale sudcoerana. Lo stesso dualismo che oppone i due maschi in cui si aggrovigliano altre oscurità, una violenza che sfugge, che è gelosia, controllo, follia. Ma in questa rilettura molto libera del racconto di Murakami – Granai incendiati – , giocata tra thriller, sentimenti, critica sociale tutto rimane fuoricampo, fluido come il nostro tempo: può essere nella banalità di un tramonto con la sua calma apparente, in una danza o nel lusso di un appartamento (illuminati dalla fotografia di Hong Kyung-pyo). Non ci sono scelte «frontali», spiegazioni, il film, il suo fascino e la sua potenza sono proprio in questo continuo suggerire – «quando si guarda da troppo vicino le cose sfuggono» dice Ben. La distanza permette a Lee Chang-dong di costruire la sua trama, restituendo l’inquietudine di uno stare al mondo, il malessere doloroso del presente che come il fuoco può bruciare o continuare a ardere nascosto nelle braci.