Strade in cui incunearsi, lo spettro di prospettive che si possono trovare, forse anche inventare, e non visione già data, acconciata in favore di uno sguardo passivo, pigro; oppure specchio, dispiego di strati e strati di figurazione, di ciò che vedo fuori dalla finestra mentre scrivo, le cose del mondo che si sfarinano, si sfiniscono intrise di scrosci, ammuffendo, marcendo trionfalmente tra il brulichio dei germi del tempo: questa libertà dell’occhio dentro il palinsesto, dentro la costellazione di immagini, e questo rapporto, sempre rilanciato, ravviato tra schermo, tra campo e il fuoricampo del mondo, sembra ispirare, innervare alla fine un festival come Filmmaker (in corso in questi giorni sulla piattaforma online di mymovies.it).

Qui lo schermo, nel suo sperimentarsi al di là della narrazione, non è mai una cosa a sé, una passione per cinefili, ma il sintomo, l’enigma delle cose fuori dallo schermo. E allora, errando per questa fantasmagoria di filmati, soprattutto sulla breve distanza, si delineano ermeneutiche, teorie: come il corrispondersi, il contrappuntarsi dell’immagine e della parola nel finale di Fiori, fiori, fiori! di Guadagnino, con il montaggio di Walter Fasano autore tra l’altro dello stupefacente Pino, appena premiato a Torino.

GUADAGNINO dà la parola allo sceneggiatore David Kaiganich facendolo dialogare a distanza, nella distanza, con le immagini di un’apnea ad alta quota, solcata dal terreno brullo, lunare, e dal cielo che a quel punto si terge vastamente; declina la pandemia nei termini della possibile palingenesi, come la rigenerazione della foresta dopo l’incendio. È il fuoco che brucia la distanza tra l’immagine e la parola, come nel bellissimo A fuoco di Riccardo Giacconi in cui il crepitio smorto della sera, cadente un tramonto tumido, gelido, è chiuso, irretito da una retìna: sarà forse la rètina che misura l’impossibilità di vedere, sfondare i limiti delle forme; eppure cielo acceso, dietro la rètina, dai fuochi fatui dei lampioni, dagli sfagli del viaggio in bus, in sfondo di motore, i fanali così algidi delle auto prima dell’autocombustione spaesata, onirica di Maria Luisa Spaziani che si dà voce, si dà ricordo, si fa vivo eco di spettro.

Tutta la serie delle Corrispondenze ha questa biforcazione testuale e immaginifica che apre un interstizio, un interregno in cui i linguaggi, mentre sfolgorano e suonano, si inseguono, si allontanano, si lambiscono o s’incrociano come sinusoidi sul piano cartesiano del significato. È il caso di 132 moons di Gaia Giani, dissertazione sui gradi del movimento – fuochi, stormi, una candela accesa da una lama di luce dalla finestra: «I want to see what you see» – che è il movimento, l’orografia del sentimento, ancora: misura della mancanza incarnata nell’ondivago fulgore dello spazio – fragori di venti, piovaschi, un nerastro battito d’ali, nuvolaglie aurorali –, quando da un quaderno annotato compare il fuoco di un’altra poeta, Chandra Livia Candriani: «Sai aspettare?»/ So bruciare»./ «Fino alle braci?»/ «Fino alle braci»/ «È perfetto».

DA LÌ, QUEST’ARDERE di salamandra – stirpe di trobairitz – può generare il contraltare cerebrale, la «prospettiva» di Ilaria Pezone, Incedere+ retrocedere= ascendere (disponibile fino a domani sulla piattaforma), che è autocoscienza, film confessionale a partire da un ordito, un intrico di nevrosi evocate da voce radiofonica: ulteriore prova che la via della parola può essere territorio privilegiato per la sperimentazione cinematografica, come se nel tentativo di bruciare, sfolgorare, il fuoco, l’a-fuoco del quadro si protenda a divenire immagine acustica, pronuncia, invocazione spettrale. In questo senso il film di Giacconi è emblematico.

Incedere constata l’effetto della nevrosi sull’appercezione di una regista di talento, che si riversa sul montaggio, un montaggio libero indiretto, mi viene da dire; sul controcanto continuo tra l’aspirazione all’ingenuità, alla serenità infantile e l’accertamento di un’attualità e di una soggettività caotiche, incrinate, in preda al panico e alla cacofonia estremi di un «stratosfericamente potente». C’è una regressione dello sguardo in questo film, il purificarsi disperato dell’occhio dentro il sonno del bambino, nel suo sogno stellato, disegnato, colorato, che si oppone all’ingiunzione a incedere nel mondo: da questa dualità, da questo attrito tra il ritrarsi e il doversi protrarre, sporgere, scaturisce l’ascesa (fors’anche l’ascesi di un azzurro di cielo), un movimento verso l’alto, il guardare in altro, nell’altro del montaggio, che è il cinema di Ilaria Pezone.

Ma per le vie infinite del festival giungo a un’altra versione delle cose, non meno esaltante, struggente, forma cava in cui cadere, placarsi al di là di ogni rivendicazione d’io: ecco, altra regressione, intessuta dalle folate del piano-sequenza, che spirano su un pianeta post-apocalittico e dilatano la materia fino a farla marcire o fiorire, mentre si staglia in aria il racconto di una bambina cosmica, Nausica parlante da un angolo dell’universo. Immagini ferme e scabre, diacce come il prolungato consumarsi del tempo al tempo di Bartas o di German, e poi il riconquistato calore del colore, un tepore primaverile, estivo che esala qualcosa come le morte stagioni.

COSÌ rigoglisce Temperance di Alberto Baroni (sulla piattaforma fino a domani), magnifico canto politico e poetico, politica che si perde nel correre, ricorrere poetico. Nasce dalla terra desolata e da uno specchio d’acquitrinio su cui assistere a una perdizione collettiva che però è solo un incaglio, un momento della vicenda infaticabile delle cose, del loro trascorrere senza sosta una dentro l’altra: è soffio cosmico dentro il rutilare del tempo, dentro l’ovunque e il sempre dell’immagine.