È con enfasi, perfino con una certa euforia, che alcuni media mainstrem italiani hanno commentato la parità di genere nella composizione del governo Renzi e, più tardi, la riunione nel quartiere generale della Nato delle cinque ministre della Difesa, tra le quali l’italiana Roberta Pinotti. «La foto di tante signore in un ambiente maschile per eccellenza – ha scritto La Repubblica – è un altro simbolo della marcia verso la parità». Una moderata soddisfazione si coglie anche presso alcune femministe, per le quali finalmente va affermandosi ciò che dovrebbe essere la normalità nelle relazioni di genere. Io sono più scettica, per orientamento antimilitarista e non solo.

Da sottosegretaria alla Difesa, Pinotti niente aveva fatto per convincerci che le donne sono pacifiste per natura, come vuole certa vulgata differenzialista. Quella che enfatizza l’essenza della femminilità individuandola, fra l’altro, nella propensione al pacifismo, appunto, e alla cura. La prima dichiarazione di Pinotti dopo la nomina è stata esattamente quella che – se non fosse per il lessico melenso – ci saremmo aspettate da un uomo al suo stesso posto: il primo impegno è portare a casa i marò, che «sono nel mio cuore e nel cuore di tutti gli italiani». Date le premesse, c’è forse da sperare che, da ministra, la signora abbandoni, che so, il progetto dei caccia F35? Che riformi il ruolo delle forze armate, almeno nel senso di una minore sudditanza alla Nato? Che operi affinché sia rispettato pienamente l’art.11 della Costituzione?

Ovviamente, le domande sono retoriche. Il mito della natura pacifista delle donne avrebbe dovuto infrangersi da lungo tempo. Almeno dal tempo delle immagini abominevoli di Abu Ghraib, con la soldatessa statunitense Lynndie England ripresa mentre calpesta un groviglio di corpi nudi di prigionieri iracheni, ne trascina uno al guinzaglio, posa accanto al cadavere di un torturato sfoggiando un sorriso pubblicitario imbellettato.

Quanto al mito dell’innata inclinazione femminile alla cura, se mai si fosse continuato a coltivarlo, per metterlo in dubbio sarebbe bastata la prova dell’impietosa ministra Fornero, incurante di vecchi e giovani (fece bene a denunciarla, il padre di uno dei tanti choosy, Norman Zarcone, dottorando palermitano suicida per disperazione da vuoto di prospettive di lavoro).

Per loro e nostra fortuna, non è con degli Abu Ghraib che avranno da misurarsi le nuove ministre. Nel loro piccolo, di ancelle e puntelli di un governo patrialcal-giovanilista-neoliberista, oltre tutto privo di legittimità elettorale, non calpesteranno corpi nudi di prigionieri, ma principi basilari della Costituzione, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, la dignità di chi del lavoro è privato, la priorità della scuola pubblica, lo stato sociale…

Quanto alle deputate che protestano, non senza ragione, affinché l’Italicum (grottesco già nel nome) includa le «quote rosa», non potrebbero, più coerentemente, indignarsi per una «riforma» elettorale anticostituzionale, insensata, irrispettosa della sentenza della Consulta, per di più concordata con un machista, un pregiudicato interdetto dai pubblici uffici?

In definitiva, questo è il senso di ciò che le femministe della mia generazione bollarono come emancipazionismo: pur d’essere fra le salvate, non importa quali masse di sommerse ci si lasci alle spalle. Altro che «simbolo della marcia verso la parità»! Intorno a loro ci sono le macerie provocate dal neoliberismo, dalle privatizzazioni, dalla crisi economica, soprattutto dalle politiche di austerità, che per le donne hanno comportato arretramento in molti campi, rispetto a una condizione femminile che era già tra le peggiori in Europa. L’ultimo rapporto sul Gender Gap del World Economic Forum ci dice che, per partecipazione femminile alla vita economica, l’Italia occupa un indegno 97° posto, su 136 paesi di tutti i continenti.

Per non dire dell’incremento di stupri e femminicidi, dell’assenza di una legge che riconosca a tutte/i il diritto al matrimonio e all’adozione, degli attacchi alla 194, sempre meno applicabile per colpa del 70% di medici pubblici che si dichiarano obiettori di coscienza.

E allora non sarebbe il caso di tornare a parlare di liberazione e a invadere le piazze per rivendicare il pane e le rose?