L’edizione 2017 de La Lotta per il teatro #01 ottobre riprendeva le parole d’apertura del Manifesto di convocazione del Convegno di Ivrea, in cui cinquant’anni prima, nel 1967, la neoavanguardia scenica italiana si diede appuntamento per tentare di farsi programma. Si trattava di rimettere in circolo alcune energie evocate da quell’evento per inquadrare le coordinate di una rinnovata lotta per e nel teatro contemporaneo. E di tradurre ancora quelle parole al presente, per una nuova chiamata al potenziale politico della scena e del lavoro artistico.

Guardati in prospettiva storica, le neoavanguardie, i tentativi di radicalizzare il decentramento e l’affermarsi della scrittura scenica sono fenomeni che intrecciano il Sessantotto e il Sessantanove, le grandi mobilitazioni di studenti e operai che, insieme, sottoposero a una critica serrata lo statuto di poteri e saperi, la divisione tra lavoro manuale e intellettuale.
L’operaio massa, preso dentro un lavoro «dipinto» in forme sempre più astratte dal fordismo, confinato nei palazzoni delle nuove periferie urbane, nell’autunno del Sessantanove decise di «volere tutto». E questa euforia non risparmiò le arti. Non solo nella misura in cui queste offrirono la propria organicità al movimento, ma proprio per quelle tensioni che, attraversate, si materializzarono in tentativi di rivoluzione dei canoni e dei linguaggi egemoni. Questa costellazione di oggetti eterogenei richiamano nel senso comune e nella narrazione dei protagonisti un tempo di liberazioni (anticoloniali e biopolitiche), di scoperta, di inizi. Ma gli inizi contengono già in nuce la fine, parola che non si declina al plurale, poiché la fine è perentoria, restauratrice, una. Definitiva.

Ecco allora che questo secondo appuntamento La Lotta per il teatro #02 Settanta9 decide di partire proprio da uno scomodo anniversario extra-teatrale: il processo del 7 aprile 1979 in cui venne sferrato un colpo durissimo all’Autonomia Operaia, sigillo posto con la repressione sulla sconfitta del movimento del Settantasette. Se sul Sessantotto si rincorrono celebrazioni e retoriche, della fine, dei resti e dei residui inappropriabili, in pochi si vogliono occupare.
Con l’occhio del teatro, delle arti performative e visive, vogliamo guardare alle spalle di quell’avvenimento, indietro verso i Settanta e oltre, verso gli Ottanta, e dunque al proliferare di collettivi artistici e spazi autonomi, alla body art e alla nuova danza, alle controculture e all’underground, al punk, alla nascita dei centri sociali, all’emergere dei club e delle culture lgbt, al consolidarsi delle istituzioni del femminismo, dai consultori alle librerie, ai movimenti antinucleari ed ecologisti. Si tratta di sfidare la narrazione (triste) che vede i Settanta come un periodo di esaurimento dell’istanza di democratizzazione radicale che aveva interessato anche la dimensione estetica.

Il nesso che, come gruppo di ricerca, ci interessa riattivare e risignificare è quello tra arti e politica, alla luce di un nostro posizionamento dentro i saperi e il mondo della produzione artistica contemporanea. Un approccio critico che vuole riattivare dal presente anche uno sguardo inverso, costruendo associazioni e genealogie inedite o sotterranee, a partire da ciò che l’imporsi della performance determinò negli anni Settanta in Italia.
La neoavanguardia scenica italiana, al pari di quanto avveniva negli stessi anni in molta parte dell’occidente, aveva rivendicato l’autonomia della scena dalla centralità del testo, producendo un investimento radicale sul corpo dell’artista. Fu un tentativo di agire sulla vita, da dentro la vita, per qualificarne la portata sensibile e politica, per costruire un agire comune. Allo stesso tempo, il rigonfiamento senza precedenti della dimensione biologica, affettiva e politica delle esistenze veicolato dall’avvento della performance impresse un’accelerazione fondamentale e irreversibile alle battaglie sull’uso della vita.

La scena performativa italiana, inoltre, si prestava particolarmente a una forma creativa di dissidenza nel momento in cui con Carmelo Bene e Lydia Mancinelli, Leo de Berardinis e Perla Peragallo, Carlo Quartucci con Carla Tatò, Giuliano Scabia, Rem&Cap, La Gaia Scienza, per limitarci a un novero ristretto, non venne più messo in scena un sistema di relazioni ereditate dalla tradizione e subordinate all’autorità del testo drammatico, ma fu il processo creativo stesso a suscitare affetti e legami su cui si fondava la vita relazionale della comunità artistica. Si tratta quindi per noi di far evadere queste figure dalla nicchia ambientale in cui sono state perlopiù isolate da una storiografia a corto raggio che le ha congelate in una zona autoctona rispetto al mondo, realizzando forse il tradimento più profondo che si può esercitare nei confronti dell’evento vivo della performance e della comunità relazionale che lo produsse.
Parleremo allora di memorie e di archivi viventi, di trasmissioni paradossali, di contagi e di tradimenti, cercando di restituire alla performance il suo carattere più essenziale: quello trasformativo. Alla fine degli anni Settanta se ne intese il potenziale, quando la consistenza effimera della performance riverberò e ingigantì nel grande rito collettivo che Renato Nicolini, geniale officiante dell’Estate romana, coagulò nella «stagione dell’effimero», capace di mitigare la cappa di terrore, isolamento e deriva individualista calata sulle esistenze nella stagione del piombo.

D’altra parte, si tratta per noi anche di riconnettere la dimensione teorica a una prassi performativa, intesa come capacità di agire: di qui la centralità che riconosciamo all’operaismo, che fu uno strumento di intervento e non una modalità di descrizione del mondo. Al pari della performance infatti, esso rifiutò di attestarsi sul problema della rappresentazione e portò alla ribalta i processi. Per i movimenti politici come per la scena, il rifiuto della rappresentazione conduce alla presa in prima persona – singolare e plurale – della propria azione in quanto attività di produzione di realtà.
La Lotta per il teatro #02 Settanta9 si pone allora l’obiettivo di partire da una riflessione aperta e condivisa sul decennio dei Settanta per intervenire nella contemporaneità, momento in cui il neoliberismo si presenta a tinte sempre più fosche: nazionalismo, sovranismo, sessismo, razzismo. Quali effetti ha questa ondata reazionaria sulle industrie culturali? Si presteranno a farsi officine di un rigurgito di estetiche molari e identitarie? Saranno risparmiate nella misura in cui continueranno a funzionare come dispositivo di cattura, di integrazione mercantile di pensieri e immaginari sovversivi? Ma soprattutto, in uno scenario sociale segnato da nuove polarizzazioni, cosa possono il teatro e le arti?
Tutte/i invitati a partecipare, con l’augurio che l’eco del passato risuoni nel presente, magari con una frequenza capace di interferire e disturbare le onde dei nuovi mots d’ordre.

Tra le/gli ospiti: Giorgio Barberio Corsetti, Francesca Corona, Franco Berardi «Bifo», Michele Di Stefano, Toni Negri, Marco Assennato, Marion D’Amburgo, Lorenzo Mango, Gianni Manzella, Jennifer Malvezzi, Maurizio Lazzarato, Agnese Cornelio, Mario Lupano, Valentina Valentini, Alessandra Vanzi, Gregory Sholette, Silvia Bottiroli, Silvia Fanti, Marco Scotini, Viviana Gravano, Ippolita Avalli, Caterina Serra e Nicolas Martino.

* L’articolo qui pubblicato è un testo collettivo delle curatrici e dei curatori: Marco Baravalle, Maria Grazia Berlangieri, Stefano Brilli, Ilenia Caleo, Giada Cipollone, Piersandra Di Matteo, Annalisa Sacchi e Stefano Tomassini