Domenica sera, cinema Oberdan a Milano. Proiettano Assalto al cielo, documentario di Francesco Munzi che racconta le lotte politiche extraparlamentari fra il 1967 e il 1977. Costruito solo con materiali d’archivio e diviso in tre movimenti, monta con attenzione e intelligenza scene di protesta, assemblee, discussioni, dibattiti, feste, botte, scontri, provocazioni, risate, testimonianze e tutto quel movimento che i giovani di allora fecero nascere nel tentativo di cambiare la società e il mondo. Dalle proteste contro la guerra in Vitnam, passando per le lotte che unirono operai e studenti, fino alla nascita di Radio Alice e la festa al Parco Lambro, è una straordinaria immersione nel corpo pulsante del ’68, e intendo corpo proprio come fisicità, un modo di occupare lo spazio e prendersi la vita, qui accentuato dal fatto che non si vedono mai le facce dei leader, ma solo di chi con la propria presenza ha costituto quel grande movimento di massa.

Nei volti di chi manifesta e discute c’è una luce aguzza, nei corpi un’energia affamata, negli occhi scorrono emozioni vissute con intensità. Che sia gioia, rabbia, delusione, tristezza, sotto traccia si avverte sempre la spinta di un fortissimo desiderio, quella fame di vita che è tipica di chi si dà il diritto di sognare.

Magri, a volte segnaligni, con i capelli lunghi spesso tagliati alla «come viene viene», le barbe incolte, le guance stropicciate dal sonno, per vedere uno di quei giovani sovrappeso bisogna cercarlo, e spesso non si trova. Quei corpi giovani che scappano durante gli scontri con la polizia, che corrono a occupare le università, che sfilano per le strade, che si ammucchiano durante le assemblee, che diaogano con gli operai, che fumano, e quanto fumano, sono la perfetta rappresentazione di ciò che si muove dentro di loro, sono come una corrente elettrica che scorre per le strade, entra nei luoghi pubblici, nelle case e contagia tutto.
Io non ho vissuto in diretta quel periodo, ero troppo piccola, come il regista Munzi d’altronde, che nel ‘68 non era nemmeno nato. Tuttavia, sebbene molto da lontano, un’eco di quel che accadeva mi arrivava e ricordo benissimo il mio desiderio di saperne di più. Facevo domande, ma nessuno sapeva, o voleva, darmi risposte. Ora, guardando quell’affresco, ho sentito più acuta che mai la sensazione di un’occasione perduta, per me che non l’ho vissuta in diretta, ma soprattutto per come tutta quell’energia è stata dispersa, sprecata, calpestata perdendo una grande occasione di cambiare in meglio il Paese. Anche i corpi dei giovani sono cambiati, così come i loro volti e gli sguardi, ma soprattutto è cambiato il modo in cui vivono se stessi e occupano lo spazio.

Non è tanto una questione di moda, abiti, acconciature, muscoli, tacchi, tatuaggi o piercing, ma di atteggiamento. Nei corpi dei giovani del ’68 senti la fame e la sete di qualcosa di nuovo, in quelli che vedo oggi in giro sento tante altre cose, ma non quella. Sento cura, attenzione, prudenza, ansia di essere accettati, noia, superficialità, solitudine, allegria, fretta, talvolta strafottenza, ma non quella vibrazione collettiva di allora. È come se dal «È possibile» si fosse passati al «Bisogna integrarsi». Quando si chiede alle nuove generazioni di stare al loro posto e fare quello che ci si aspetta da loro, si butta alle ortiche la propria linfa vitale. Si spreca il futuro e alla fine si muore, soli, vecchi, acciaccati e, molto probabilmente, depressi. Chi voglia rimettere in circolazione un po’ di quel virus vitale, mostri ai liceali di oggi questo film. Serve per fargli capire che l’Assalto al cielo è sempre possibile.

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