Questo è un progetto in équipe, non solo nel senso che ogni nuova traduzione italiana di Virgilio tiene conto inevitabilmente di una tradizione italiana molto pregevole (io personalmente ho grande stima della triade allitterante Canali, Carena e Calzecchi Onesti, ma molti altri hanno dato contributi notevoli, e Fo è uomo che non nega a nessuno il proprio giusto riconoscimento), ma anche in quanto è il frutto della collaborazione di due autori, uno un filologo classico di grande competenza e finezza, e l’altro un poeta contemporaneo tra i più ammirati. Il fatto che questi due autori si trovino riuniti nella persona e nella personalità di Alessandro Fo non deve trarre in inganno: farli convivere e lavorare insieme armoniosamente non deve essere stato facile, nonostante l’ovvio vantaggio di essere congiunti a livello di biologia e di ritmi circadiani. (Adesso poi si aggiunge un terzo elemento, il Fo performer: come aveva fatto Virgilio, Fo passa agli annali – nel sito web Einaudi – come recitatore dal vivo del suo poema epico).
I mestieri del filologo e del poeta non sono identici e nemmeno alleati, ma la traduzione di Fo ha saputo sfruttare in modo equilibrato la loro convivenza. Il poeta Fo ha portato tutto un suo senso della forma e del ritmo, il filologo Fo ha voluto che la traduzione fosse di quelle che accettano il dovere di spiegare e di aiutare la comprensione dell’originale. Il poeta ha portato autonomia, rendendo il testo fruibile anche da solo, e il filologo ha controllato che ci fosse una perfetta aderenza al testo latino – si è assunto insomma la parte di quella che Robert Lowell chiamava tassidermia come traduzione.
Come diceva Brodsky, la traduzione è insieme impossibile e imperativa, ed è necessaria quanto lo è la poesia. Fo ha sofferto la sua parte, e sono impressionato da quanto lavoro e travaglio si indovina dietro queste pagine, ma alla fine ci ha consegnato un testo che è un atto di speranza, non il frutto di una serie di tormentose e narcisistiche aporie. È arrivato il momento di chiudere i conti con visioni depressive della traduzione, e con i sensi di colpa di chi vede il tradurre come arte di perdere, the art of losing; nel caso di Fo è più efficace vedere la traduzione come un ri-cominciare della creazione poetica, un far ripartire il processo creativo con tutta la sua felicità. E’ importante rompere il nesso fra arte del tradurre e depressione: non è un caso se la celebre ma forse apocrifa frase di Robert Frost, «Poetry is what is lost in translation», ha finito per fornire il titolo a un film sulla crisi di mezza età, Lost in Translation di Sofia Coppola.
La felicità della traduzione di Fo si inserisce bene in un periodo in cui la traduzione dalle lingue morte è finalmente al centro del dibattito culturale. (Se posso lanciare un sommesso proclama in questa occasione, vorrei bandire una crociata contro il termine «traduttologia» – se vogliamo porre fine ai complessi di inferiorità dei traduttori e ai loro momenti di crisi di di identità sarebbe il caso di adottare un nome meno punitivo e almeno in buon italiano per i c.d. Translation Studies).
Fo ha cominciato a vincere la sua partita trovando il ritmo. In questa scelta il poeta Fo e il Fo filologo si sono trovati felicemente d’accordo. Il poeta deve aver contribuito il concetto che la poesia è ritmo e temporalità, mentre il filologo ha suggerito la scelta di una metrica barbara adeguata alle strutture dell’esametro latino. Avendo utilizzato quest’anno l’Eneide «Nue» nel mio corso universitario del triennio, posso confermare che questa scelta funziona bene a livello didattico, e mi è servita molto nel compito di spiegare la metrica dell’esametro e l’importanza della metrica per capire il genere letterario e il rapporto fra testo e fruizione del pubblico. Per una volta la traduzione italiana che avevo adottato non restava inerte, ma collaborava a questo processo. La traduzione di Fo è trazione, è sospinta e ispirata da un continuo movimento, che porta nell’italiano le sei battute dell’esametro. Prima di leggere il testo di Fo ero leggermente pessimista su questa soluzione, ma ora sono del tutto in pace con la metrica barbara rivisitata. Questo andamento ritmico è essenziale a rendere il testo come poema epico, fa capire che il genere letterario è una scelta essenziale per capire il poema. Per citare uno dei pochi cantautori italiani che non siano ancora stati rivalutati dai filologi, il suo verso ha «un battito… un tiro micidiale che ti porta, che ti porta via con sé»: si tratta di trazione, non solo di traduzione e tradizione.
Nello stesso senso va il rifiuto di soluzioni ‘uno ad uno’ e delle variazioni eleganti su quello che l’originale ha voluto invece fosse ripetitivo e formulare. Anche qui Fo non ha cercato facili effetti cosmetici tipici del translationese, ma ha voluto mettersi umilmente al servizio del testo in quanto testo epico e testo antico.
Il Fo filologo ha poi vinto la sua partita nella sensibilità per i punti difficili del testo. Ho sottoposto la sua traduzione a un test sulle mie aporie favorite del testo di Virgilio, e ha sempre vinto lui in termini di capacità diagnostica: la sua traduzione ogni volta è superiore a molte altre non tanto per eleganza formale, quanto per capacità di mettersi al servizio del lettore e di non rimuovere la difficoltà, ma piuttosto di interpretarla: ecco quindi i tre test di qualità che sono solito praticare sulle nuove edizioni dell’Eneide (sottoponendo alla prova commentatori e traduttori):
1,6 genus unde Latinum, «e da ciò la stirpe latina»: «e da ciò» non si impone sul piano estetico, ma dell’interpretazione sì. Infatti genus unde Latinum vuol dire, su questo sono tutti d’accordo, «da cui deriva la stirpe latina», ma il senso della frase potrebbe essere compreso almeno in tre modi: ‘da Enea’ ‘dal Lazio’ ‘dalle azioni compiute da Enea e indicate dalla frase precedente, in particolare da quello che Enea fa per portare gli dei e una nuova civiltà nel Lazio’ – ‘da ciò’ vince quindi non perché sia bello ma perché guida il lettore a diagnosticare il problema e a superarlo. Il latino unde infatti può riferirsi non solo a una singola parola ma anche all’intera azione di una frase. I Latini quindi non discendono da Enea, che sarebbe idea accettabile se fossimo ad esempio in Catone; questo storico repubblicano e padre fondatore della storiografia italica attesta che grazie alla venuta di Enea nel Lazio ci fu una fusione di Aborigeni e Troiani a formare i Latini, ma è idea falsa alla luce della ricostruzione del passato operata da Virgilio, secondo il quale i Latini esistevano già prima che arrivasse Enea; e non derivano il nome dal Lazio, che sarebbe informazione troppo banale per un testo come il proemio dell’Eneide. I Latini derivano dall’azione civilizzatrice di Enea, che pure non è il loro fondatore o eponimo o capostipite; dall’azione di Enea (in particolare la pietas e la sofferenza personale) come viene interpretata da questo nuovo e definitivo poema. Ecco l’importanza della sintassi di unde in questa frase.
1, 26-8
Manet alta mente repostum
Iudicium Paridis spretaeque iniuria formae
Et genus invisum et rapti Ganymedis honores

«nel fondo alla mente, riposto, resta il giudizio di Paride, ingiuria all’offesa bellezza, e Ganimède rapito e onorato, e la stirpe a lei odiosa»
La bellezza qui nel testo latino sta nella mancanza di logica, o meglio, nella logica tipica dell’odio razzista, come ha spiegato benissimo Don Fowler: «sono qui riassunte – spiega correttamente, ma senza approfondire, il commento di Filomena Giannotti – le cause dell’odio di Giunone verso i Troiani».
Le cause sono tre e sono nel testo di Virgilio in quest’ordine:
– quello che ha fatto Paride
– e li odio li odio, odio la loro razza
– quello che è successo a Ganimede
Il testo di Virgilio è capace di narrare soggettivamente, e qui ci caliamo nella mente di Giunone: le cause riassunte sono le cause come le pensa lei, secondo la logica propria dell’odio razzista «i motivi sono tanti, parlano una lingua incomprensibile e poi la puzza quando cucinano e li odio li odio odio la loro gente e poi c’è il fatto che ti portano via il lavoro».
Alessandro Fo ha passato anche questo test: per non mettere troppo alla prova il lettore ha dato un minimo di ordine al testo, mettendo «e la stirpe a lei odiosa» al terzo posto invece che nel suo splendidamente illogico secondo posto, ma non ha nascosto l’aspra illogicità di questa ‘causa’ dell’odio feroce di Giunone, causae irarum saevique dolores, che consiste nel fatto che lei li odia proprio, questi Troiani.
Ecco l’ultimo test:
12, 946 furiis accensus et ira
«avvampando di furie e nell’ira»
Un traduttore meno filologo di Fo avrebbe facilmente appianato il plurale furiis in «furia» o «furore», o forse normalizzato il testo spiegandolo come endiadi e offrendo un senso coerente di quello che accade nel profondo del personaggio: «avvampando di ira furibonda», ma furie è giusto così. Noi non possiamo ricreare la perfetta ambiguità del testo latino in scrittura capitale, in cui il lettore sa che furiis, o meglio FVRIIS, può essere un sentimento o il nome delle Furie, o tutt’e due le cose insieme, e quindi deve esitare nella sua performance e interpretazione del testo, ma il plurale furie, sia pure con la minuscola, invita il lettore a quel minimo di esitazione produttiva che il testo vuole incoraggiare: Enea è in preda alle sue furie o alle Furie infernali, dee della vendetta e della follia e del crimine? Importante esitazione per riempire di senso questo finale e i suoi dilemmi etici.