La provocazione arriva a freddo e prende di mira il simbolo dell’innovazione tecnologica, la Apple. L’iPod, l’iPhone e l’iPad non sarebbero mai stati prodotti senza i soldi che lo stato americano ha investito nei progetti di Ricerca e Sviluppo dagli anni Cinquanta fino a ieri, quando l’applicazione basata sull’intelligenza artificiale Siri è uscita dai laboratori ed è diventata una società e un prodotto che Steve Jobs ha comprato per una cifra irrisoria rispetto agli investimenti statali destinati al suo sviluppo. Poche pagine dopo, un altro colosso della Rete, Google, è preso di mira. L’algoritmo Page Rank, sviluppato alla Stanford University e diventato lo strumento per far diventare Google la potenza imprenditoriale nota a tutti, è stato finanziato dal Pentagono. Stesso discorso per le nanotecnologie, disciplina di ricerca che da sempre ha usufruito di generosi finanziamenti statali. Se il campo di osservazione cambia e dalla computer science si passa alle biotecnologie non ci sono molte variazioni nel mood analitico.

La mappatura del Genoma umano non sarebbe infatti stata immaginabile, negli Stati Uniti, senza l’intervento del National Institute of Health (Nih), che oltre a finanziare il progetto di ricerca di base continua a investire centinaia di miliardi di dollari per la ricerca applicata allo sviluppo dei cosiddetti «farmaci orfani», destinati alla cura di malattie rare, che coinvolgono risibili minoranze della popolazione, ma che sono venduti dalle multinazionali farmaceutiche a prezzi stratosferici. Allo stesso tempo è proprio il Nih che ormai «innova» farmaci consolidati, basandosi però sulle conoscenze che vengono dalla genomica. Infine, un altro settore ritenuto «strategico» nello sviluppo economico, le energie rinnovabili, non riuscirà a decollare se lo Stato non continuerà ad investire nella ricerca, come testimoniano i progetti pubblici di sviluppo in Cina e in Brasile.

Produttore di futuro

È questo il punto di partenza di un volume intelligentemente provocatorio e meritoriamente tradotto da Fabio Galimberti per la casa editrice Laterza. A scriverlo è Mariana Mazzucato, economista italiana, naturalizzata americana (i suoi genitori erano «cervelli in fuga» negli anni Cinquanta) e attualmente docente, in Inghilterra, presso l’University of Sussex. Lo stato innovatore (pp. 378, euro 18), questo il titolo, presenta una tesi controcorrente rispetto l’ideologia dominante neoliberista. Per l’autrice, lo Stato è un soggetto politico fondamentale nel favorire lo sviluppo economico, perché è il luogo dove vengono definite le norme che non solo regolano, ma producono il mercato. Svolge cioè un ruolo performativo dei comportamentii funzionali allo sviluppo capitalistico.

È questo il contesto dove, teoricamente, Karl Polany incontra Lord Keynes, Joseph Shumpeter e, ma l’autrice non ne fa mai menzione, anche il Michel Foucault storico dell’ordoliberismo austriaco e della biopolitica. Marina Mazzucato non è però interessata alle genealogie teoriche delle sue tesi. Il suo obiettivo è far emergere ciò che rimane in ombra nella discussione pubblica segnata dall’egemonia liberista, cioè che gran parte delle tecnologie sviluppate al processo economico sono «effetti» degli investimenti dello Stato, in epoca moderna, nel campo della formazione e della ricerca scientifica. Investimenti che non sempre prefigurano immediate ricadute produttive e economiche. Quel che si deve infatti chiedere allo Stato è una vision del presente e del futuro senza asficciti e algidi vincoli di bilancio.

Si investe in ricerca e formazione perché, nei tempi lunghi, l’intero «ecosistema» se ne avvantaggerà, grazie alla presenza di un elevato numero di ricercatori, di forza-lavoro qualificata e dalla traduzione operativa (la ricerca applicata) di conoscenze sviluppate in anni e anni di lavoro in qualche laboratorio senza l’ansia e l’incubo di doversi spostare da un mecenate all’altro nella speranza di raccogliere i fondi necessari per andare avanti nelle ricerche.

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In nome dello statalismo

Nell’esporre la sua tesi Mariana Mazzucato non nasconde dunque la sua propensione «statalista» per quanto riguarda il necessario interventismo pubblico nella formazione e nella ricerca scientifica. Non è quindi un caso che si applica con convincente convinzione alla demolizione di un altro mito che ha accompagnato lo sviluppo della computer science e della new economy. Imprese come Google, Facebook, Intel, Apple non sono diventate quel che sono – cioè imprese globali fondamentali nello sviluppo capitalistico – grazie a intraprendenti e spericolati venture capitalist: il capitale di rischio, scrive l’autrice, più che favorire l’innovazione, la rallentano, anzi la mettono in pericolo. Chi investe in una start-up, infatti, non è interessato a finanziare l’innovazione tecnologica, bensì a far crescere quel poco un impresa per poi collocarla in borsa o venderla a un’altra società per ripagare l’investimento iniziale con l’aggiunta di una percentuale (generalmente molto alta) di profitti.

Lo Stato innovatore è una miniera di informazioni per quanto riguarda la ricostruzione delle fortune di Apple, di Google e delle altre imprese simbolo della new economy. L’esisto è una controstoria dello sviluppo tecnologico e economico degli ultimi cinquant’anni. Da questo punto di vista, Mariana Mazzucato fa sue molte delle analisi che hanno individuato nel Pentagono la fonte economica e finanziaria dell’innovazione tecnologica. Non solo i progetti per la costruzione di una rete di comunicazione che potesse «sopravvivere» a un attacco nucleare è stata finanziata dai militari attraverso il Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency ), ma è stato sempre il Pentagono, assieme al Ministero del commercio, che ha definito le regole affinché i risultati delle ricerche potessero essere diffuse sull’insieme delle attività produttive statunitensi. Internet è nata così. Ma questa è storia nota.

Il pregio del volume sta semmai nel ripercorrere tutti i passaggi che hanno portato ai successivi programmi di ricerca degli anni Settanta e Ottanta (il Gps, le nanotencologie, gli schermi lcd, il finger work, cioè gli schermi tattili) senza i quali non ci sarebbero stati l’iPod, l’iPhone e l’iPad.

Il sole che ride

Il famoso motto di Steve Jobs (stay hungry, stay foolish) usato per indicare la condizione necessaria per il successo imprenditoriale nasconde l’ipocrisia di chi è stato sfamato grazie al fatto che ha sfruttato, certo creativamente, la creatività manifestatasi nei laboratori di ricerca e nelle università lautamente finanziati dallo Stato attraverso il Pentagono o il programma Atp dell’Istituto nazionale per le norme e la tecnologia o dai progetti relativi all’innovazione per quanto riguarda le piccole e medie imprese.

Eguale rilevanza informativa è data allo sviluppo delle energie rinnovabili. In questo caso, gli Stati Uniti hanno scelto di costituire una agenzia federale apposita (l’Arpa-e) che dovrebbe svolgere nelle energie rinnovabili lo stesso ruolo svolto dal Darpa nella computer science e dal Nih nelle biotecnologie. Tuttavia, la strada migliore è quella tratteggiata da Cina e Brasile. In Cina lo stato ha investito e sta investendo centinaia di miliardi di dollari per favorire la ricerca e lo sviluppo di energia rinnovabile attraverso l’eolico, il fotovoltaico e il solare. In Brasile, invece, le banche per lo sviluppo definiscono e finanziano programmi che consentano al paese latinoamericano non solo di essere, nel futuro, indipendente dal punto di vista energetico, ma di vendere l’energia pulita prodotta. Cina e il Brasile sono diventati paesi all’avanguardia della green-economy, come la Germania, mentre gli Stati Uniti hanno perso terreno prezioso.

Nel Novecento la Ricerca scientifica statunitense è stata prevalentemente finanziata dallo Stato, anche se l’autrice non nasconde che gran parte dei risultati conseguiti sono stati poi acquisiti dalle imprese private e usati per innovare i prodotti e i processi lavorativi. Inoltre, negli Usa, lo Stato ha definito norme, definito i processi e le procedure affinché le conoscenze tecniche scientifiche potessero essere socializzate, favorendo così la crescita di nuovi mercati, facendo leva, ad esempio, sulle norme della proprietà intellettuale. Da qui il pendolo statunitense che oscilla dalla scelta a favore del public domain alla possibilità concessa alle università di poter brevettare le scoperte scientifiche avvenute all’interno di progetti di ricerca finanziati dallo Stato.

Governance di sistema

Mariana Mazzucato non è una economista radicale anticapitalista. La tensione polemica presente nel volume è semmai rivolta contro l’ideologia neoliberista, che vede nel mercato il deus ex machina dell’innovazione. Il capitale di rischio non rischia, afferma l’autrice, vuole vincere in partite facili, dove certo c’è incertezza, ma il rischio è minimo. Un atteggiamento parassitario che lo Stato ha per troppo tempo favorito e incentivato. Per l’autrice, l’intervento statale va salvaguardato perché è il solo soggetto politico che può creare un «ecosistema simbiotico» tra pubblico e privato. Lo stato tuttavia deve creare le condizioni affinché si manifesti al meglio l’indispensabile serendipity che favorisce l’innovazione e la ricerca scientifica. Per fare questo, vanno messe in campo misure che, ad esempio, recuperino parte dei finanziamenti statali attraverso un articolato sistema di governance della conoscenza. Può dunque essere istituita una golden share sui diritti di proprietà intellettuale, in maniera tale che una parte delle royalties vadano a finire nelle casse dello Stato; oppure va attuata una riforma fiscale che scoraggi l’elusione nel pagamento delle tasse da parte di imprese che si sono avvantaggiate dalla ricerche scientifiche finanziate dallo Stato, come invece accade adesso per gran parte dei colossi della new-economy e delle biotecnologie, che stabiliscono le loro sedi nei paradisi fiscali o in regioni tax free. Tutto ciò per continuare, anzi aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo

Il capitalismo può dunque essere salvato con un rinnovato protagonismo dello Stato, senza il quale è destinato a implodere nelle sue contraddizioni. Perché una delle regole auree del neolibierismo («socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti») ha portato il capitalismo sul ciclo del burrone. Solo con lo presenza di uno Stato che investe molto e che crei le condizioni per un ecosistema simbiotico tra pubblico e privato, chiosa alla fine l’autrice, è possibile pensare non solo alla sua sopravvivenza, ma a un suo duraturo sviluppo. Conclusioni modeste, si può dire, per un libro che invece ha una sua potenza analitica che funziona come un salutare antidoto a quel neoliberismo che con la sua crisi sta impoverendo la maggioranza della popolazione.