È consuetudine designare le encicliche con le prime due o tre parole del testo. Tra le combinazioni linguistiche più penetranti nell’immaginario collettivo figura certamente la Pacem in terris di Giovanni XXIII. Nata da un’idea di monsignor Pietro Pavan, fu resa pubblica l’11 aprile del 1963 e suscitò tanto entusiasmo nella chiesa e nelle società occidentali, quanto preoccupazione negli ambienti conservatori.

Roncalli si era rivolto a «tutti gli uomini di buona volontà» (la stessa formula usata nel 1950 dall’Appello di Stoccolma dei Partigiani della Pace) invitandoli a mettere da parte lo strumento della guerra e a sventare così il rischio dello sterminio nucleare. Dopo il radiomessaggio per la crisi missilistica di Cuba (ottobre 1962), il nuovo intervento a favore della distensione fu percepito come un pericolo da coloro che intendevano mantenere alto l’anticomunismo in Occidente (Italia compresa). Venendo ai contenuti dottrinali, in questo testo (ancora di più che nella precedente Mater et Magistra) la discontinuità con l’insegnamento tradizionale è rappresentata soprattutto dal metodo espositivo, volto a identificare nei «segni dei tempi» le condizioni necessarie per mantenere la pace: progresso della tecnologia e delle condizioni materiali, affermazione dei diritti sociali e civili, ascesa della classe lavoratrice, ingresso delle donne nella vita pubblica, decolonizzazione. Non meno innovativa era la chiave di lettura con la quale Giovanni XXIII inquadrava il problema della pace: fuori dalle categorie della crociata contro il mondo moderno, dentro il diritto internazionale e distante da quel modello ierocratico che aveva identificato nelle guerre contemporanee la punizione per le società secolarizzate.

Il piano della ragione

Il papa riconosceva il valore dei movimenti di trasformazione che puntavano all’avanzamento dei diritti umani indipendentemente da quale fosse l’ideologia che li animava. Addirittura arrivava a distinguere «l’errore» (quello delle dottrine materialiste, sempre da condannare) dall’«errante», ovvero i movimenti che ne erano portatori con i quali si potevano trovare forme di collaborazione. Come era prevedibile, queste e altre novità (come l’elogio della Dichiarazione dell’Onu del 1948) provocarono sconcerto nella Curia romana ed è noto il tentativo di depotenziare l’affermazione di Giovanni XXIII sull’irrazionalità della guerra nell’età del nucleare nella traduzione in italiano, capostipite di tutte le principali traduzioni nelle altre lingue. È altrettanto chiaro, soprattutto grazie alle ricerche di Daniele Menozzi, che Roncalli non intendeva rompere completamente con l’insegnamento tradizionale: se il terreno di incontro con i non credenti andava trovato sul piano della ratio, cionondimeno l’enciclica proclamava che la pace avrebbe potuto essere instaurata «solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio». In altre parole, Giovanni XXIII non ha mai cercato di distaccarsi dalla tradizione dei suoi predecessori.
Non era solo una questione di prudenza nei confronti della Curia, ma soprattutto di obiettivi: il suo era l’«aggiornamento» di quella tradizione e a tale scopo aveva convocato il Vaticano II. In quella sede il problema della legittimità della guerra è stato oggetto di nuove formule compromissorie, ma nei decenni successivi la Pacem in terris rimarrà un punto di riferimento imprescindibile, una Grande Carta dei diritti, come Gianpasquale Santomassimo l’ha efficacemente definita sul Manifesto in occasione dell’ultimo decennale. Che il rapporto con il diritto occidentale fosse ancora problematico lo mostrerà il lungo pontificato di Giovanni Paolo II: nessun passo indietro rispetto al discorso di Paolo VI all’Onu del 1978 sui diritti umani, ma in un quadro generale che appariva sempre più caratterizzato dal relativismo e della secolarizzazione il pontefice ha sentito il bisogno di dilatare la sfera della legge naturale (la legge di Dio) in antitesi agli Human rights di derivazione illuminista: prova ne è la battaglia per il riferimento alla radici cristiane nel progetto di Costituzione europea (Menozzi, Chiesa e diritti umani, Il Mulino).

C’è guerra e guerra

Relativamente al problema dei conflitti, non c’è dubbio che il pontificato di Giovanni Paolo II abbia segnato una nuova stagione di impegno contro la guerra (si pensi all’opposizione alle due guerre del Golfo), ma la tradizionale casistica sulla guerra giusta non solo non è stata superata, al contrario è stata ribadita anche nell’ultimo Catechismo datato 1992 e nel successivo Compendio del 2005. Insomma, ciò che sembra essersi perduto negli ultimi decenni è soprattutto quella fiducia nei «segni dei tempi» che aveva portato Giovanni XXIII a scrivere la Pacem in terris. Se papa Francesco, che di Roncalli condivide lo stile pastorale e l’attenzione ai poveri, segnerà una nuova svolta è ancora presto per dirlo. Attestiamoci sul fatto che con il suo insediamento la chiesa è tornata a rivolgersi «a tutti gli uomini di buona volontà».