«Se siete interessati a storie con un lieto fine, fareste meglio a leggere un altro libro. In questo libro, non solo non c’è un lieto fine, non c’è un lieto inizio e c’è ben poco di lieto tra i due». È l’attacco del primo dei tredici volumetti dedicati alle peripezie degli orfani Baudelaire – Violet (ingegnosa come Archimede Pitagorico), Klaus (che legge e memorizza tutto come uno scanner), e Sunny (un bebè dalle mandibole d’acciaio), nella popolare serie per ragazzi Lemony Snicket. Una serie di sfortunati eventi. Frutto dell’immaginazione del quarantaseienne di San Francisco Daniel Handler, questo riff americano su Dickens, i Grimm, Roald Dahl e persino Oscar Wilde, era stato portato al cinema, nel 2005, in una sontuosa produzione firmata Scott Rudin, con Jim Carrey nel ruolo del conte Olaf, l’attore fallito, fetido e malvagio, a cui i bambini sono affidati dalla banca quando i genitori muoiono un incendio che distrugge la mansion in cui vivono e che, nel corso dei tredici «capitoli», fa di tutto per ucciderli ed entrare in possesso della loro fortuna.

Il film, tratto dai primi tre libri della serie, fu un successo e avrebbe dovuto avere dei sequel che rimasero però inghiottiti da una catena di cambi ai vertici della Sony. Forte della partecipazione creativa dello stesso Handler, qui in qualità di produttore esecutivo, delle capienti tasche di Netflix e della gamma visiva quasi illimitata che l’evoluzione del cgi ha portato al fantastico da piccolo schermo, Lemony Snicket torna sotto forma di serie tv. Otto episodi, in cui stanno racchiusi i primi quattro volumi, con Neil Patrick Harris nei panni laceri di Olaf, affiancato da un cast «alto», di cui fanno parte Joan Cusack, Alfre Woodward, Will Arnett, Katherine O’Hara e l’ex Miami Vice Don Johnson sotto le spoglie di un capo fabbrica da rivoluzione industriale.

Dall’apertura su sfondi grigio nero decrepiti, su cui si stagliano quasi in 3D i colori e le presenze vivaci dei tre Baudelaire (che prediligono i picnic in spiaggia quando è nuvolo, in modo da evitare le folle), quello in cui entriamo è un universo che deve molto al gotico postmoderno di Tim Burton e al deadpan macabro della Addams Family, specialmente nella sua incarnazione da sitcom tv. Non a caso, il regista di quattro episodi della serie è Barry Sonnenfeld, già dietro alla macchina da presa dei film La famiglia Addams e La Famiglia Addams 2. Meno malinconici ed esistenzialmente «mostruosi» della maggior parte dei bambini burtoniani, Violet (Malina Weissman), Klaus (Louis Hynes) e Sunny (Presley Smith) sono anzi dei modelli di razionalismo, e americanissimo spirito d’iniziativa, che reagiscono con indomito coraggio e intraprendenza alla litania di sventure che si abbatte su di loro.

Olaf (un Harris iperistrionico e canterino, che fa molto Broadway, e che fa rimpiangere la presenza più spiazzante e minacciosa di Carrey) è solo il primo di una lunga galleria di tutori sprovveduti (nel mondo di Handler i bambini sono molto più responsabili degli adulti) a cui i Baudelaire vengono affidati. Ma è il nemico costante: anche quando – dopo che ha cercato di costringere Violet a sposarlo sul serio durante la messa in scena teatrale di un matrimonio- i bambini vengono tolti dalle sue grinfie, lui – capace di mille travestimenti, uno più grottesco dell’altro- è sempre sulle loro tracce. E tutti «i grandi» della storia sono troppo ottusi per fermarlo. Reso più «mosso» dei libri da una vena di mystery che Handler ha inserito per la serie, il Lemony Snicket di Netflix è anche più comico – le battute migliori spesso affidate a Sunny, che ha un linguaggio tutto suo, tradotto in sottotitoli gialli. Visivamente parlando, lavora infatti di stilizzazione, sul filo del fumetto, e torna spesso la contrapposizione tra fondali decrepiti e monocromatici e il colore dei personaggi.

Universo sospeso tra gotico e surrealismo, sci-fi e era vittoriana, favola e filosofia, anche questo Lemony Snicket rimane al suo meglio quando resta nella sfera di quella delicata, caustica, acrobazia che rende tanto belli i libri che lo hanno ispirato. Nonostante l’ampio, pittorico, uso del Cgi, il mondo di Handler rimane deliziosamente analogico. Come la sua cultura di riferimento, che – grazie al cielo – non è stata «aggiornata» in virtù del nuovo adattamento. Infinite le citazioni, colte e camp, a partire dal cognome (maledetto) degli sfortunati orfani protagonisti delle serie. E poi Sunny e Klaus, come i famigerati coniugi Von Bulow (quelli raccontati anche in Reversal of Fortune, di Barbet Schroeter), la famiglia del banchiere Poe, l’ipnotizzatrice Orwell…Non a caso i piccoli Baudelaire trovano tanto conforto, e tante opportunità, nelle biblioteche. Un esempio, il loro, da raccomandare a tutti.