Tra le enormi difficoltà di questi giorni, una va assumendo un peso crescente mano a mano che il contagio si diffonde: la misurazione della sua entità. Quanti siano, realmente, i contagiati nessuno lo sa. Benché la conferenza stampa di fine giornata della Protezione civile sia diventata un appuntamento fisso, chi è in grado di dire quanto i numeri riportati si avvicinino alla realtà?

Che non le corrispondano è sicuro: ma quanto ampia è la misura dello scostamento? Nemmeno il numero dei morti è certo: pare che nelle zone più colpite, dove gli ospedali sono saturi, molte persone muoiano in casa senza venire registrate. Così come approssimativo è il dato dei guariti: spesso gli organi di informazione riportano notizia di dimissioni che si ritrovano registrate nelle statistiche ufficiali a giorni di distanza. Probabilmente, il solo dato attendibile è quello dei ricoverati in terapia intensiva.

Quel che sappiamo con certezza è che ogni regione sta operando a modo suo: il Veneto fa più tamponi possibile; la Lombardia e, in misura minore, il Piemonte rimandano a casa, senza prelevare tamponi, molti di coloro che si presentano in ospedale con sintomi da cui non deriva la necessità di ricovero immediato.

Anche la priorità data alla protezione del personale sanitario – a maggiore rischio di contagio – varia, a seconda dei protocolli adottati da regione a regione.

Il risultato è l’impazzimento dei dati, a partire da quello sulla mortalità: per limitarsi ai territori più colpiti, in Lombardia è del 12,1%, in Emilia Romagna e in Liguria è al 10,6%, nelle Marche al 7,1%, in Piemonte al 6,3%, in Toscana al 3,6%, in Veneto al 3,1% (dati del 21 marzo). Sono numeri insensati, a meno di non voler credere che il virus si sia “federalizzato” nel rispetto dei confini regionali. La cosa più probabile è che, se i metodi di rilevazione fossero omogenei su tutto il territorio nazionale, la situazione sarebbe, anche statisticamente, assai più chiara.

Qui sta un punto nodale. È in atto una limitazione delle libertà senza pari nella storia repubblicana.

Al di là della criticabilità degli strumenti utilizzati – ordinanze ministeriali e decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (dpcm), con conseguente marginalizzazione del Parlamento – dobbiamo fidarci del governo e accettare che nel merito non si potesse agire diversamente (anzi, sarebbe forse stato meglio agire prima). La Costituzione consente, d’altronde, limitazioni delle libertà se rivolte a tutelare la salute, vera e propria precondizione perché tutti gli altri diritti possano essere goduti in concreto.

Tuttavia, il nesso tra la situazione emergenziale e le misure adottate per farvi fronte deve essere rigorosamente individuato, dimodoché le misure stesse possano essere valutate come proporzionate e idonee a superare l’emergenza (indicazioni in tal senso sono rinvenibili nella sentenza n. 127/1995 della Corte costituzionale). Ora, non conoscendo le reali dimensioni dell’emergenza, come possiamo valutare se le misure adottate siano o meno proporzionate alla situazione?

E, ammesso e concesso che siano comunque misure appropriate, come possiamo valutare quando sarà venuto il tempo prima di allentarle e poi di farle venir meno? Nel momento in cui sono in gioco, per quanto condivisibilmente, le libertà costituzionali, queste sono domande democraticamente ineludibili. Avere fiducia nel governo non significa rinunciare al controllo critico della sua azione.

È chiaro che, se siamo in una situazione così deplorevole da aggravare la già gravissima emergenza, è per via di errori pregressi legati all’esasperata regionalizzazione della sanità pubblica, oltre che al suo impoverimento in risorse umane, strumentali e finanziarie. Non appena lo si potrà fare, la ricostituzione degli elementi fondamentali di un vero sistema sanitario nazionale dovrà essere la priorità.

Nel frattempo, è opportuno che il governo coinvolga il più possibile gli altri organi costituzionali nella gestione della situazione – per esempio utilizzando lo strumento del decreto-legge, che necessita della conversione parlamentare, o i decreti del Presidente della Repubblica, che richiedono l’emanazione del Capo dello Stato – e che il Presidente del Consiglio dei ministri, nelle cui mani si va accumulando un potere senza precedenti, rifugga da ogni tentazione di personalismo.