Si chiama «Misure urgenti per l’emergenza abitativa» il decreto legge sulla casa approvato dal governo Renzi. Nella relazione di accompagnamento si parla a più riprese della grave crisi della casa: famiglie che non riescono a pagare l’affitto e giovani senza prospettive di futuro, e cioè le vittime principali delle politiche abitative che da venti anni vengono applicare come un dogma. Politiche sostenute da un forte tasso di retorica: solo l’iniziativa privata, si disse, è in grado di risolvere il problema della casa. A venti anni di distanza devono intervenire sull’emergenza a dimostrazione del fallimento delle ricette liberiste. Ma qui come in altri settori, l’ideologia ancora dominante non cerca con onestà intellettuale di fare i conti con il fallimento. Pretende di risolverlo aumentando la dose della cura: ad esempio si incrementa la vendita del patrimonio immobiliare pubblico (art. 3), ma il cuore del decreto sta nel quinto comma dell’articolo 11, eloquente esempio di come si tenti di sfruttare le sofferenze sociali per miserabili tornaconti.

In quell’articolo si parla della volontà di incrementare gli «alloggi sociali» che in una delle tante leggi di privatizzazione (Dm 2.4.2008) vengono definiti quelli «realizzati o recuperati da operatori pubblici e privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni pubbliche quali esenzioni fiscali, assegnazione di aree od immobili, fondi di garanzia, agevolazioni di tipo urbanistico». Abitazioni private a canone concordato, dunque, che si collocano pur sempre all’interno del «mercato». Il decreto Renzi afferma che si possono realizzare «case sociali» sul patrimonio esistente attraverso demolizione e ricostruzione e cambio di destinazione d’uso, mentre al comma quattro dice che queste politiche si applicano anche agli alloggi in costruzione o «AC150» addirittura – alle convenzioni urbanistiche in itinere.

Vediamo di orientarci. Oggi il mercato abitativo è pressochè fermo per eccesso di offerta e il mercato degli uffici langue per mancanza di domanda. Con quell’articolo si permette di mutare in «alloggi sociali» ogni edificio esistente o in corso di realizzazione, ottenendo perfino agevolazioni procedurali, finanziamenti pubblici e agevolazioni fiscali (art. 6 e 9). In questo modo non si risolverà l’emergenza abitativa perché chi versa in grave disagio economico e sociale non potrà mai accedere a questo segmento di mercato: si consente soltanto alla speculazione immobiliare di liberarsi di un immenso patrimonio invenduto.

I sapienti estensori del decreto si accaniscono poi in modo indegno proprio contro i teorici destinatari della legge. In questi anni non sono state costruite case pubbliche e l’unico strumento a disposizione delle famiglie povere e dei giovani è stato l’occupazione di edifici abbandonati. Gesti dolorosi per chi le pratica condannato a una precarietà senza prospettive. Ebbene, all’articolo 5 si dice che gli occupanti non possono avere la residenza l’allaccio dell’acqua o della luce. Chi non ha reddito non ha diritto di lavarsi o di far studiare i propri bambini con una lampadina accesa. Questo atteggiamento culturale che in altri tempi sarebbe stato bollato di odio sociale viene giustificato nella relazione con «l’esigenza del ripristino della legalità». Ottimo sentimento che sarebbe forse opportuno indirizzare nel ripristino delle sanzioni sul falso in bilancio, reato ben più grave delle occupazioni di necessità.

Nel 1903 l’approvazione dello straordinario principio delle case popolari fu merito di Luigi Luzzatti, esponente di spicco della destra storica italiana. Pur essendo economista e fondatore di banche, scriveva che solo la mano pubblica era in grado di risolvere il problema delle abitazioni per i ceti poveri. Ma era appunto un economista liberale non un famelico speculatore neoliberista come coloro che hanno ispirato e scritto la legge. Sul Presidente del consiglio è infine meglio tacere: temiamo che non riesca neppure a comprendere l’urgenza di mettere mano ad un organico provvedimento legislativo che inverta il fallimentare ventennio liberista ad iniziare dalle poste di bilancio ferme a pochi spiccioli. Renzi continua con «non ci sono i soldi» e «tanto ci pensa il privato».