L’altro giorno è venuto a parlarmi un uomo non più giovane, segnato da una tragedia personale (ha perso la figlia), che sente l’urgenza di fare delle cose, perché, (consapevolezza troppo poco diffusa) capisce che le occasioni non sono infinite e che il tempo è limitato. Aveva fretta perché non vuole tradire le attese affidate dai suoi padri e quelle indispensabili a chi viene dopo di noi.

Il dolore non l’ha chiuso, anzi, l’ha reso attento a quello degli altri e invece di lamentarsi, di essere vittimista o cercare a tutti i costi improbabili benesseri cerca con determinazione di aiutare gli altri. Il privato e il pubblico tornano in lui a coincidere.

Abbiamo parlato del progetto che ha in mente per rendere migliore il mondo e di cui voleva sapere il mio parere. Quello che mi ha colpito principalmente, però, sono state le due condizioni che ha indicato come premessa.

Ci vuole, mi ha detto, “umiltà e visione”. Mi è sembrato molto saggio.

Non si realizza nulla senza l’umiltà di affrontare i problemi veri, in maniera seria, non con il narcisismo che si accontenta delle dichiarazioni. L’umiltà è lavoro, sacrificio, perché non accetta l’apparenza degli spot, delle soluzioni rapide ma finte che servono solo a prendere tempo, ingannandosi e ingannando con risposte mai risolutive, piene della droga delle intenzioni.

Umiltà significa mani sporche di lavoro, affronto dei problemi non addomesticandoli; è guardare negli occhi la realtà e non il nostro distorto immaginario. Quanto è vera l’affermazione di Papa Francesco che la realtà è superiore all’idea! Umiltà è toccare la carne, cioè l’umanità così com’è, non il virtuale che rende tutto uguale e soprattutto distante.

Umiltà è passare dall’esistenza alla storia. Visione è vedere quello che ancora non c’è, per non restare prigionieri del cinismo, spettatori di un mondo che assiste oggi alla stessa scelta per cui alcuni erano sommersi e altro salvati. I profughi.

Senza visione ci sentiamo sempre troppo piccoli per fare qualcosa o troppo grandi o raffinati per sprecarci in scelte concrete. Così ci condanniamo a conservare il passato e questo, senza il futuro, si perde. Chi strilla il vergognoso e soprattutto irreale “prenditeli tu a casa tua”, (che significa anche “io posso non occuparmene e non voglio occuparmene”) è  colpevole perché fa credere che possiamo non fare nulla.

Umiltà e visione. I morti annegati impongono di decidere. Ed è proprio questo che spaventa, perché siamo prigionieri dei calcoli, delle pigrizie, delle paure di un mondo che così è fuori dal mondo, che non vuole mai pagare il conto pensando tutto un diritto.

Non è affatto “buonista” chi richiede accoglienza per questi “uomini e donne come noi, – fratelli nostri che cercano una vita migliore, affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre, cercavano la felicità”, come ha detto domenica scorsa Papa Francesco.

Chi pensa di dire la verità perché invita a chiudere la porta non è cattivo ma pensa di dire le cose vere: è solo ignorante e stupido, ingannatore, perché sa bene che il problema resta e diventa solo più invisibile, quindi più pericoloso!

Accoglienza e garanzie per tutti non sono affatto contraddittorie. Alzare muri, che sono inefficaci e aumentano solo  le paure, non protegge affatto! Il problema è che dobbiamo fare funzionare il nostro sistema e forse sarà migliore davvero per tutti, anche per noi e per i nostri “sommersi”(e quanti sono!). E il sistema è malconcio certo non per colpa di emigranti che disperatamente chiedono futuro e aiutano noi a non smettere di cercarlo.

Come ha detto papa Francesco a Lampedusa ormai due anni fa: “La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”.

A Strasburgo, parlando all’Europa, il papa ha detto: “Dobbiamo mettere assieme una cultura dei diritti umani che unisca la dimensione individuale, o, meglio, personale, a quella del bene comune, a quel “noi-tutti”. E’ giunta l’ora di costruire insieme l’Europa che ruota non intorno all’economia, ma intorno alla sacralità della persona umana, dei valori inalienabili; l’Europa che abbraccia con coraggio il suo passato e guarda con fiducia il futuro per vivere pienamente e con speranza il suo presente. È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e piegata su se stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede.

L’Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l’Europa che guarda e difende e tutela l’uomo; l’Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutti”. E’ troppo difficile un discorso così, laico, umile e di visione, per un’Europa che non si pensa in relazione e che quindi si abbandona ai rischi di vecchi e nuovi nazionalismi o di diventare un triste condominio di mondi chiusi?

Altrimenti diventiamo “passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi programmati; un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini”.

L’emergenza dei profughi impone, con fretta, quest’umiltà e questa visione. Senza paure.

[do action=”citazione”]I corridoi umanitari garantiscono la protezione della vita dei migranti e un controllo saggio dei flussi.[/do]

Evitiamo di naufragare noi in un mare di insolente e stupido egoismo. Troveremo così la parte migliore e più vera dell’Europa e anche il suo futuro. Lo dobbiamo ai nostri padri e ai nostri figli. Lo dobbiamo ai tanti che sono morti per la nostra libertà, 70 anni fa e ci hanno affidato un umanesimo pagato col sangue. E a quei bambini che cercano come tutti i bambini futuro.

* Matteo Zuppi è vescovo Ausiliare di Roma