Il dopo-coronavirus è lontano: la pandemia progredisce a velocità comparabile in tutti i paesi, nonostante le note differenze nella fase di contagio, nell’uso dei test, e nel tipo di risposta dei sistemi sanitari. L’incertezza domina, nessuno scienziato è in grado di esprimersi su come evolverà l’incidenza epidemica.

Un Donald Trump sempre più in guerra con la realtà si regola sul calendario elettorale americano e parla di fine ad agosto, mentre Storia e calcolo probabilistico obbligano a considerare lo spettro delle ondate epidemiche di ritorno. Molti paesi si accodano al ‘modello italiano’ nel proibire ogni spostamento non essenziale: si configura un inedito, gigantesco, fosco esperimento sociale dagli esiti più che mai imprevedibili.

Mentre a Roma arrivano aiuti medici cinesi e in Lombardia si annunciano medici cubani, stentano a farsi vedere i soldati USA che sarebbero dovuti sbarcare in Europa per la più grande esercitazione militare dalla fine della Guerra Fredda. Ovunque si chiudono i confini: il panico delle borse e la folle guerra al ribasso sui prezzi sul petrolio rappresentano plasticamente le dinamiche di atomizzazione di un sistema internazionale che pare aver smarrito il principio ordinatore. La crisi, come il contagio, si propaga lungo assi di simultaneità: la difficile reperibilità di mascherine e respiratori ne è forse il segno più evidente.

Ma quando il dopo si potrà intravedere, cosa di quel dopo ci parlerà del prima? Quanto può essere incubatrice di un cambio di paradigma una crisi profonda e protratta?

Nella storia della nostra specie ogni epidemia ha portato alla ricerca del rimedio e – a suon di profilassi e internamento coatto dei poveri – ad una ripartenza, forte delle nuove conoscenze, ma sul medesimo binario. Nel tempo i rimedi sono diventati così efficaci e disponibili da generare l’illusione di immunità: antibiotici e vaccini, in fondo, non sono che succedanei secolari del miracolo.  Oggi che torniamo ad immergerci nell’incertezza, e l’obiettivo diventa rallentare il virus abbassando la curva di contagio esponenziale, val la pena domandarsi che cosa ci dicono del mondo in cui vivremo domani i modelli di risposta che scegliamo oggi.

Trovatasi con il suo cuore produttivo e logistico lombardo-veneto-emiliano nell’occhio del ciclone, l’Italia ha dapprima perseguito una gradualità poco incline alla criminalizzazione dei comportamenti individuali, salvo poi – in presenza di tassi di letalità in crescita – imboccare con decisione un modello di lockdown che stigmatizza e sanziona i comportamenti fuorvianti.

Agendo per prima fra le democrazie occidentali, e con competenze sanitarie distribuite su diversi livelli di governo, l’Italia ha faticato a dare forma alla risposta, mentre il dibattito pubblico impazzava facendo perdere tempo prezioso: nel giro di pochi giorni siamo passati dai riaprire tutto! al tutti in casa!, dal razzismo dei cinesi mangiatopi ai cinesi come modello da emulare. Le stesse mappe del contagio restano disomogenee, fra zone in cui i test vengono limitati ai casi conclamati, zone in cui di dichiara che si fanno tamponi a spron battuto, e zone in cui si vorrebbe testare di più, ma i risultati tardano ad arrivare.

Il grande, simultaneo esperimento sociale coronavirus interroga il rapporto fra individuo e società. Il social distancing passa attraverso le insidie della transizione digitale della quotidianità. Nella realtà incapsulata e virtuale, divenuta totalizzante, il prodotto su larga scala di crack finanziari e guerre – ovvero senzatetto, evasi, rifugiati, migranti – esce magnificato nel ruolo di agenti perturbatori dell’ordine. Dalle case in cui siamo barricati, ci stiamo chiedendo quale sarà l’impatto dell’epidemia in quell’enorme carcere a cielo aperto che è la striscia di Gaza.

Quale sorte attende le famiglie di rifugiati a Lesbo – dove mancano acqua e sapone – le decine di migliaia che premono sul confine turco, o le centinaia migliaia in fuga da Idlib? Che ne sarà dei migranti che la nostra tanatopolitica costringe nelle carceri libiche? Vedremo stati fragili implodere nell’anarchia?

I modelli di contrasto all’epidemia che vediamo circolare sembrano ridurre la società ad interazioni casuali fra individui-atomi avulsi da qualsiasi dinamica relazionale strutturata. Eppure, senza toccarci, ci guardiamo, ci emuliamo: le affollate stazioni di Parigi riflettono la fuga dalla stazione centrale di Milano. Essendo voluminoso, noto nel carrello degli altri in coda alla cassa il pacco della carta igienica, penso un motivo ci sarà, penso ‘se non altro finirà’, e mi pare razionale, in quella circostanza, precipitarmi a comprarla. Il mio comportamento, a sua volta, contagerà il vicino di carrello, producendo una supply crisis.

Il modello liberale poggia sull’idea che il mercato sia in grado di provvedere a ciò che serve, e di individui che anche davanti al pericolo fanno scelte razionali. Ma le cose si ingarbugliano: quali sono le soglie di comportamento? Prendere una boccata d’aria è permesso e salutare, ma se tutti la prendono diventa cazzeggio irresponsabile – per citare i nostri amministratori.

Zaia evoca il coprifuoco, nei punti caldi compare l’esercito. I controsensi di sprecano, dalla Casa Bianca che obbliga chi arriva negli aeroporti americani per sottoporsi al test, fino ai droni kuwaitiani – che invitano la popolazione a disperdersi, ottenendo come unico risultato l’assembramento di curiosi a filmarli col cellulare.

Queste increspature non dovrebbero sorprendere, producendosi sull’orlo di un crepaccio che in realtà è molto più profondo. Come è noto i paesi a capitalismo avanzato negli ultimi decenni hanno visto deteriorare significativamente la capacità del proprio sistema sanitario pubblico, con un  dimezzamento dei posti letto, terapia intensiva inclusa, nel tentativo di contenere la spesa sanitaria davanti a una popolazione che invecchia.

Le tanto decantate ‘eccellenze della sanità privata’ di fronte al Codiv-19 risultano di utilità marginale. Come colmare, dunque, il gap fra necessità/libertà individuali e saturazione delle infrastrutture deputate alla salute pubblica, che gli indici di letalità apparente della pandemia impietosamente espongono? Quanto, nel modello di risposta scelto, è biopolitica pura – ruolo pastorale dell’autorità a garanzia della salute e della prosperità – e quanto trascolora invece nella più tradizionale coercizione affidata allo stato d’emergenza e alla criminalizzazione dei comportamenti?

Nella situazione presente, i decreti adottati in Italia e Spagna affidano un ruolo di pubblica sicurezza ai militari. La decantata efficienza della risposta cinese all’epidemia non si limita alla costruzione di strutture sanitarie a tempo di record. Nelle fasi più convulse essa non ha lesinato aspetti coercitivi inumani, famiglie letteralmente sigillate in casa senza assistenza, deportazioni a forza. Nei video di incerta origine filtrati in Occidente abbiamo visto persone lanciarsi nel vuoto dagli appartamenti pur di non fare la fine del topo.

In Cina come in Corea e a Singapore abbiamo visto entrare in azione un vasto apparato di sorveglianza e monitoraggio digitale, riferibile al concetto di sicurezza algoritmica: il tracciamento dei percorsi degli infetti, la produzione di mappe del pericolo, disseminate attraverso app commerciali che informano autorità e individui. In Israele un governo di interim che si trova in carica dopo un’elezione inconcludente cavalca l’emergenza ed estende al coronavirus il programma di tracciamento a lungo usato per il controllo dei palestinesi, il tutto senza alcun dibattito parlamentare.

Quanto occorrerà prima di vederne adottati i principi anche da noi, come invocato fra gli altri da Matteo Renzi? Davanti a un’emergenza che perdura, si fa strada l’idea di un rientro dall’isolamento modulato in base alle risultanze individuali dell’algoritmo che elabora una mole di dati, dal tracciamento degli spostamenti alle condizioni di salute. 

D’altra parte, e lungo un crinale meno fosco, l’emergenza apre, quantomeno in potenza, uno spazio per l’azione politica a tutela della comunità democratica, a partire dallo sforzo a protezione dei più vulnerabili. Tale spazio si apre se, si riconosce che i confini nazionali sono in buona parte un feticcio e il mercato deve fare molti passi indietro.

Saltano i dogmi neoliberali sul pareggio di bilancio, mentre nell’emergenza Italia e Spagna hanno aperto la strada per ritorno del privato sanitario nella disponibilità del pubblico. Come ha scritto Mario Pianta (Sbilanciamoci, 13 marzo), “il welfare non è un ‘costo’ per il sistema economico privato, è un sistema parallelo che produce beni e servizi pubblici e assicura la riproduzione sociale in base a diritti e a bisogni, anziché alla capacità di spesa.” Certo, diversamente da Bernie Sanders, Joe Biden resta convinto che il sistema sanitario pubblico non stia facendo alcuna differenza in Italia. 

Certo molti non vedono il nesso fra ecocidio, cambiamento climatico e crescente frequenza delle pandemie. Ma fino a quando? Lo scenario che abbiamo davanti non è riducibile al semplice schema del soggetto immobile e della paura individualizzata, fra irreggimentazione sociale e sorveglianza coercitiva. Sovranisti e neoliberali proveranno disperatamente a rivendicare l’accoppiata privato-nazione, ma la storia che si dipana sotto i nostri occhi spinge verso la centralità del pubblico, dell’interdipendenza e della discontinuità di politiche e pratiche sociali.