«Cosa avresti voluto fare da piccolo? … L’importante è cercare di diventare quello che si vuole essere» dice Kore-Eda (regista di After the storm qui al Certain regard, apprezzato autore di Father and son e Little sister). Tra tutte le persone che sono qui, quanti sono felici di essere quello che sono? Chi può dirsi soddisfatto di ciò che ha fatto nella propria vita? Vedendo nuovi film, nuove storie viene da pensare se non sia tutto già visto, tutto già raccontato. La sala buia come un utero materno. Il perché della creazione.

E poi, dopo aver accumulato storie su storie su storie, alcune dette in maniera nuova, mai sentita, sorprendente, altre in maniera ripetitiva, già masticata, ricordata come un déjà vu, nasce urgentemente una domanda: chi, tra tutti noi, popolo di visitatori del festival di Cannes, chi è davvero quello che vuole essere? E se la sceneggiatrice che passeggia sulla Croisette, in attesa che il film che ha scritto e che passa alle 14, avesse tanto voluto fare la regista e scrivere per gli altri fosse solo un frustrante ripiego per guadagnare la pagnotta? E se il decoratore d’interni del film coreano avesse tentato vent’anni di fare il pittore, ma non ne avesse le qualità, o le amicizie, sufficienti? E l’ufficio stampa, il produttore esecutivo, l’assistente ai costumi: se ognuno di loro avesse un altro sogno nel cassetto, magari meno appariscente ma di maggiore soddisfazione, non esaudito? Quando è che i rimorsi si trasformano in rimpianti? Quando i rimpianti corrodono il cuore e fanno vivere male le esperienze presenti? Quando è troppo presto per fare dei compromessi? Quando è troppo tardi per cambiare strada, per trovarne il coraggio? Alzi la mano chi è felice di quello che fa, di dove si trova, di cosa è diventato da quando ha smesso di essere bambino.

Un aneddoto: mercoledì 11 maggio – giorno di apertura di Cannes 69 – all’aeroporto di Nizza, davanti al tapis roulant in attesa dei bagagli imbarcati nella stiva (sfido chiunque a stare 10 giorni con solo il bagaglio a mano), mi sorrido con un signore alto sui sessanta, dalla folta capigliatura bianca, aria perfettamente yankee – dinoccolato in jeans neri e maglietta nera – una lieve somiglianza con Steve Martin. «Hi, I’m Dan»; mi presento in risposta. Mi dice che è la quarantacinquesima volta che partecipa al festival, faccio la battuta che è quasi la mia età e lui, per galanteria, mi dà 32 anni al massimo. Flatté lo ringrazio, e lui approfondisce il concetto: lavorare con le storie fa rimanere giovani.

«Teenager forever» controbatto. Lui è distratto da una italiana bionda, sedicente regista (assai più giovane di me), che attacca a parlare fitto fitto obbligandolo a prendere il suo numero. Rimango basita accanto al rullo. Quando arriva la mia valigia lo saluto con la mano e un flebile «bye». Chi fosse Dan, l’americano canuto, un produttore un distributore un giornalista non l’ho mai saputo, se poi abbia reincontrato la sfrontata italiana non mi è dato sapere, se prendere un caffè insieme insieme i giorni successivi avrebbe potuto aprire strade americane…

Le biforcazioni sono assai, Smoking – No smoking di Alain Resnais (1993) ce lo ha raccontato bene, o l’astuta affabulatrice Sherazade ne Le mille e una notte: ogni possibilità è aperta, se vado a sinistra la storia va in un modo se vado a destra va in un altro, ogni punto di vista è quello giusto, ogni ipotesi possibile. Deliro o non deliro, questo è il problema. Finché continuerò a domandarmelo resterò bambina. (Ultimo film in sala ero con un panda di peluche nello zaino, molto apprezzato dalla security, e che, come spettatore, non ha niente da invidiare ai più alternativi cinephile).

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