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Università Statale di Milano, fine anni venti-primi anni trenta, esami di Filosofia Morale. Tra gli esaminandi ce n’è uno che non può sfuggire all’attenzione dei presenti. Si muove scortato da agenti perché sta scontando una pena di tre anni di confino in quanto «elemento pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica, in conseguenza della sua attiva propaganda fra elementi intolleranti dell’attuale stato di cose».

Si chiama Lelio Basso, classe 1903, già una laurea in legge e un’attiva presenza entro un ampio nucleo di antifascisti legati alla rivista genovese democratica Pietre e all’organizzazione clandestina della Giovane Italia. Iscrittosi per una seconda laurea in filosofia dopo quella conseguita a Pavia, Basso prosegue gli studi dal confino di Ponza. Il professore è Pietro Martinetti, autorità indiscussa su Kant, convinto antifascista. L’esame è breve. Il presidente della commissione, lo stesso Martinetti, interroga lo «studente» sull’imperativo categorico kantiano. E, senza attendere la risposta di Basso, dichiara: «Lei ha mostrato con la sua condotta di sapere benissimo cosa sia l’imperativo categorico kantiano: trenta e lode».

Questa pagina dimenticata di storia dell’università italiana negli anni plumbei della dittatura è incastonata nel bel libro col quale Chiara Giorgi tratteggia un’intensa biografia intellettuale di Basso (Un socialista del Novecento. Uguaglianza, libertà e diritti nel percorso di Lelio Basso, Carocci, pp. 276). L’ho letta con interesse, da non specialista di queste cose, con in testa un vecchio detto del grande formalista russo Victor Šklovskij. Il detto è che, per dare loro un nuovo e più profondo significato, le parole vanno rivoltate come un ciocco nel fuoco. Ecco, questo libro ci consente di riprendere in mano, rivoltate come un ciocco nel fuoco, parole chiave usurate e rese opache da tanta sciagurata pratica politica e civile che purtroppo ha imperversato e continua a imperversare. Lo fa restituendoci il profilo di una figura di punta della vita politica, civile e culturale italiana del Novecento, che ha attraversato con un raro esempio di impegno e rigore tre quarti di un secolo tanto travagliato, anche e soprattutto per il nostro paese.

La prima parola è appunto, come dice il titolo, «socialismo». È una parola che entra nella vita di Basso negli anni del liceo, frequentato a Milano, al Berchet, a cavallo della Grande guerra. Guida il percorso formativo di questo ragazzo della media borghesia provinciale savonese trasferitosi con la famiglia nella «capitale morale» nel 1916, il professore di storia Ugo Guido Mondolfo, amico e sostenitore di Gaetano Salvemini e come lui esponente della scuola storiografica economico-giuridica. È Mondolfo a indirizzarlo agli scritti storici di Marx. Ed è da lui e poi ben presto dal fratello Rodolfo che Basso trae ispirazione per un approccio umanistico al marxismo e al socialismo.

Come mostrano gli articoli degli anni venti scritti sotto lo pseudonimo di Prometeo Demofilo (letteralmente un ribelle che sta dalla parte del popolo), questo approccio si precisa mediante il confronto col liberalismo gobettiano, col neo-protestantesimo (la tensione etica e l’attenzione per il numinoso rimanendo una costante del pensiero bassiano) e, proprio negli anni del confino, con l’elaborazione di Rosa Luxemburg. Della quale Basso resterà poi interprete primario nel panorama italiano, facendone un cardine della delicata dialettica uguaglianza-libertà-ascolto incessante delle spinte provenienti dalla base che innerva tutta la sua pratica e il suo pensiero. Tutto ciò avviene senza mai perdere di vista l’aggancio alle concrete condizioni economiche (Basso sa, ad esempio, che cos’è il lavoro impiegatizio per averlo sperimentato nell’immediato dopoguerra come stenodattilografo e corrispondente per un’azienda di macchine per maglieria) e l’intreccio con la battaglia antifascista.

Eccoci così alla seconda parola chiave che la lettura di Un socialista del Novecento ci restituisce fuori di ogni vuota retorica. «Antifascismo» torna qui come pratica che non smette di ripensarsi, precoce lettura del regime fascista come «totalitarismo», coraggiosa esposizione di sé e della propria vita per la trasformazione radicale dello stato di cose presente in una lunga attività clandestina che culmina nell’esperienza resistenziale. E che si proietta poi nella partecipazione all’Assemblea Costituente.

In essa Basso prova a tirare i fili del nesso lavoro-democrazia (la terza espressione chiave del nostro percorso) con un contributo decisivo alla redazione dell’articolo 3. Che, mostra bene Giorgi sulle orme di Rodotà, invocando l’impegno della «Repubblica» a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», tiene aperta e spinge in avanti la tensione tra ordine giuridico e sociale. Un cuneo «garantista» (Antonio Negri, La forma stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Feltrinelli, 1977) e, al tempo stesso, una leva emancipatrice per il lavoro che bastano da soli a dare la misura di Basso e il debito enorme che gli dobbiamo.