Per fermare l’evidente emorragia di voti e di consensi, Renzi non ha esitato a ricorrere a un berlusconismo assai frustro: l’eliminazione di ogni tassa sulla casa. Appena la Ue ha avuto da ridire, Renzi è stato perentorio. “Sulle tasse decide l’Italia non l’Europa”. Solo che allora dovrebbe valere per tutti, compresa la Grecia!

Della riforma fiscale il Presidente del Consiglio ha parlato a Cernobbio e a “Porta a Porta”. Segno che non si tratta di una boutade estiva.

La Tassa sui servizi indivisibili dei Comuni, che porta nelle casse dello Stato 3,5 miliardi di euro, lo 0,21% del Pil, era già stata cancellata per il 31% dei contribuenti appartenenti alle fasce più deboli della popolazione.

Se quindi i famosi 80 euro di riduzione di prelievo fiscale si rivolgevano ai meno abbienti, qui senza pudore si premiano i contribuenti più facoltosi.

Quando tale proposta era uno dei cavalli di battaglia di Berlusconi, il responsabile economico del Pd Taddei dichiarava : “Il Pd non può passare più tempo a parlare dell’Imu che di Fisco. L’importo medio dell’imposta sulla casa era di 250 euro l’anno, parliamo di 20 euro al mese, senza dimenticare che le fasce più deboli erano già state esentate”. Ma la coerenza non è il pezzo forte da quelle parti.

L’Ufficio studi della Cgia puntualizza che la media dei risparmi sarà di 204 euro a famiglia, ma è la classica media del pollo, dal momento che i più ricchi arriveranno a risparmiarne oltre 2.000. Persino l’allineatissimo governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha storto il naso udita la dichiarazione renziana. Dal canto suo Pier Carlo Padoan ha dichiarato che per ridurre le tasse bisogna prima ridurre la spesa pubblica, riproponendo la tormentata questione della spending review. In realtà avviene il contrario: si riduce la spesa pubblica per il sociale per spianare la strada alla riduzione delle tasse per i ceti più forti. Come si diceva una volta “pagherete caro, pagherete tutto!”, ma a destinatari rovesciati.

Già alla fine del 2014 Matteo Renzi parlava della “più grande riduzione di tasse mai avvenuta”. L’enfasi si è autoalimentata e siamo a “una rivoluzione copernicana”. Ma il disegno renziano non va sottovalutato.

Le differenze fra il berlusconismo e il renzismo starebbero soltanto nel maggiore tasso di efficacia del secondo rispetto al primo? Nell’alta febbre del fare dell’assai più giovane leader? Non si tratta solo di questo.

Non conosciamo ancora i documenti finanziari che il governo dovrà presentare a Bruxelles, ma le linee conduttrici del vaste programme renziano sì.

Il Governo ha dichiarato di volere abbattere la pressione fiscale di 45 miliardi in 3 anni, da qui al 2018. Sono davvero in pochi, anche tra i commentatori più amici, che ci credono. Anzi vi è chi pensa al fallimento e si limita a valorizzare l’effetto annuncio. Tra l’altro riuscire a evitare l’aumento dell’Iva nel 2016 e nel 2017- poco popolare perché provocherebbe un incremento generalizzato dei prezzi – ha un suo costo non da poco. Non fosse che per questo è assai improbabile che vada realmente in porto il disegno renziano di abbassare la pressione fiscale di 3 punti di Pil.

Ma più del fine contano il percorso e la modalità. Qui Renzi si mostra diverso da tutti i governi che l’hanno preceduto. Diverso certamente dalla cultura della sinistra che non ha mai considerato le tasse un male in sé. Ma questo è troppo ovvio per chi la sinistra l’ha abbandonata persino nel nome.

Renzi mostra di volere imboccare una strada differente sia dai precedenti governi di centrosinistra che da quelli berlusconiani e di centrodestra. La diversità sta nella successione delle tappe che compongono il suo ambizioso progetto, che possono essere riassunte in tre step.

Il primo che dovrebbe avvenire nel 2016, riguarda la già citata abolizione totale per tutti delle tasse sulla prima casa (Imu e Tasi); il secondo passo, destinato a muoversi nel 2017, prevede una riduzione dell’Ires e dell’Irap; concluderebbe il percorso il terzo step, che ha in serbo un intervento sull’Irpef e sulle pensioni.

Si interviene prima sulla detassazione della prima casa di cui, per i motivi già detti, si avvantaggiano i più ricchi; poi sulla riduzione di Ires e Irap, due tassazioni che riguardano le imprese e il mondo delle partite Iva, quindi a favore dei datori di lavoro, almeno per quanto riguarda la prima delle due tasse, mentre la seconda interessa un campo socialmente più ibrido ma comunque al di fuori del lavoro dipendente classico; solo alla fine si pensa – se a quel punto sarà “possibile”, ovvero compatibile con l’austerity – a ridurre l’imposta sulle persone fisiche e sulle pensioni.

Superato il punto di identità con Berlusconi riguardo alla detassazione integrale della prima casa, emergono anche qui differenze significative.

Nel “Contratto con gli italiani” del 2001 le promesse di riduzione fiscale di Berlusconi si concentravano sull’Irpef, prima che sull’Ires (allora Irpeg) o sull’Irap. Infatti il capo della destra proponeva una semplificazione a due delle aliquote (33% e 23%). Al contrario, Renzi si rivolge prima e direttamente ai produttori che non alle famiglie. Il populismo dall’alto del giovane leader pare essersi fermato agli 80 euro in busta paga.

In ogni caso, per rendere evidente il blocco sociale di riferimento cui intende rivolgersi (bypassando la rappresentanza confindustriale come ha fatto con i sindacati dei lavoratori), egli sceglie un campo, come quello fiscale, che è di alto valore simbolico ma allo stesso tempo capace di produrre dei cambiamenti reali.

Se si mette assieme questa presunta ”rivoluzione copernicana” con il Jobs act, lo “sblocca Italia” e la cosiddetta “buona scuola”, il disegno del Nostro diventa sempre più preciso e il suo connotato di classe evidente.

Le cronache raccontano che a Cernobbio ci sia andato in elicottero. Helicopter money? Sì ma solo per pochi. I soliti.