Che la memoria non sia nulla di assodato, tanto meno un sapere da intendersi come dato una volta per sempre, è cosa tanto ovvia a chi di essa se ne occupa dai diversi punti di vista chiamati in causa quanto invece fatto per nulla scontato tra i più. Le retoriche pubbliche che hanno istituito una sorta di obbligo a dovere ricordare, inteso erroneamente come il migliore viatico all’impedimento che possano ripetersi le tragedie trascorse, a conti fatti sono destinate a rivelare ben presto la loro pericolosa inconsistenza. Tanto più quando esse assumono la fisionomia di una pedante pedagogia collettiva, dai connotati prescrittivi, a tratti enfatica, edulcorata e ritualistica quanto estranea alle dinamiche del tempo in cui va a cadere. Da questo punto di vista un atteggiamento di tal genere rischia di rivelarsi un capitolo del più generale svuotamento di significato del passato, benché si presenti sotto spoglie esattamente antitetiche.
Così, per intenderci, nel caso della bulimia encomiastica che nel secolo appena trascorso ha accompagnato l’istituzionalizzazione del ricordo dei fatti d’armi e di guerra. Un processo, questo, funzionale alla cristallizzazione in chiave autoritaria del rapporto di cittadinanza. Dove il legame non è tra pari, sulla scorta di medesimi diritti, ma è la riproduzione di un rapporto di dipendenza di natura gerarchica dove l’individualità può esistere solo nella misura in cui si sacrifica nel nome del gruppo.

Sopravvissuti e dimenticati

La logica del patriottismo, soprattutto se su base etnica, si alimenta persistentemente di questa dinamica. Che offre a tanti un senso di appartenenza, non importa quanto fittizio. È bene pensare che, a conti fatti, a non pochi una qualche forma di dipendenza, quindi di subordinazione, necessita per dare un orizzonte alla propria esistenza. Dopo di che, come esiste una memoria morta, se ne accompagnano altre che invece hanno la forza dell’esistenza, raccogliendo il racconto della vita. A ben vedere la memoria della deportazione, che è scrittura collettiva della resistenza ai meccanismi di distruzione istituzionale di corpi e pensieri, si è caratterizzata fin da subito per il suo antagonismo rispetto alla musealizzazione e alla anestetizzazione operata dalle retoriche dei nazionalismi così come oggi dei localismi. Proprio per questo ha vissuto una traiettoria difficile, a tratti quasi catacombale, comunque il più delle volte contrastata.
Bruno Maida, studioso torinese che da sempre si occupa di storie e ricordi legati alle persecuzioni nazi-fasciste e ai Lager, ci consegna ora uno studio dedicato a Il mestiere della memoria. Storia dell’Associazione nazionale ex deportati politici, 1945-2010 (Ombre corte, pp. 256, euro 23). Non è un lavoro sulla costruzione della memorialistica bensì sulla sua carnificazione, ovvero sul suo darsi come insieme di volti e di corpi, quelli delle persone che dal ritorno a casa, sopravvissuti alla deportazione, nel percorso di ricostruzione delle proprie esistenze hanno saputo rielaborare il trauma personale così vissuto e trasfonderlo in comunicazione pubblica. Più che la sola storia di una organizzazione, l’Aned, in sé di modeste proporzioni, dagli andamenti altalenanti ma comunque frequentemente non facili (mancanze di risorse, equilibri politici a volte precari, forte segmentazione territoriale e così via), quella che l’autore ci offre è quindi una riflessione su come il dolore sia divenuto patrimonio condiviso per almeno due generazioni che non hanno vissuto la tragedia dei campi nazisti.
Se le istanze originarie, quelle raccolte a partire dal dopoguerra e nel decennio successivo, ruotavano intorno alla necessità di trovare un linguaggio con il quale i protagonisti delle deportazione potessero parlare di se stessi, della loro esperienza, con i propri sodali e nella cerchia famigliare, alla ricerca di strumenti culturali ma anche esistenziali per dare di nuovo un senso alla propria vita, con la stagione dei movimenti collettivi prima e l’onda lunga dei mutamenti avvenuti nei due decenni successivi l’Aned, ma soprattutto coloro che ne hanno fatto attivamente parte, hanno mutato integralmente il loro statuto da sopravvissuti a testimoni. Un transito, quest’ultimo, di importanza capitale poiché affida al campo della pedagogia democratica e costituzionale il significato del ricordo di qualcosa che, per sua stessa intrinseca natura, si sarebbe consegnato altrimenti all’oblio individuale oppure al paradigma collettivo dell’insensatezza.

Una vicenda estrema

Il lavoro compiuto dagli ex deportati è stato quindi non tanto quello di restituirci il racconto di una vicenda estrema ma di dirci quanto nella radicalità di essa, ai limiti dell’impensabile, si celino insospettabili tratti della nostra quotidianità. L’impegno dell’Associazione è infatti stato quello di trovare non solo un lessico ma anche una sintassi della trasmissione dell’esperienza, ossia un percorso di senso che non si riducesse alla sola ripetizione del passato ma potesse essere compreso rispetto alle emergenze, ai linguaggi, alle aspettative del presente. Se l’obiettivo dei fascismi è stato quello di isolare le loro vittime, affinché non solo potessero così essere meglio e più efficacemente colpite ma anche e soprattutto perché i legami di socialità e di reciprocità collettivi risultassero vincolati al filtro dei regimi, l’azione delle vittime è stata rivolta nel senso esattamente opposto a quello che più e meglio avrebbe reso un postumo omaggio ai loro persecutori, ovvero il ricorso al risentimento.

Irrisolte difficoltà

Il lascito della deportazione non è infatti la sola condanna, men che meno il perdono – categorie morali che poco o nulla hanno a che fare con l’azione politica – bensì la comprensione dei meccanismi di distruzione della soggettività umana. Dentro ma anche fuori i campi di concentramento. Nel corso dei decenni in cui si è articolata la presenza dell’Aned, confrontandosi, a volte anche con irrisolte difficoltà, con la storia del partigianato e del movimento di Liberazione, l’oggetto «deportazione» ha quindi progressivamente perso i connotati di un evento collaterale ai grandi fatti della storia, per assumere quegli elementi di significato che oggi gli attribuiamo. Fenomeno periodizzante, a tratti quasi metro di giudizio su cui misurare e valutare altri processi storici. L’attenzione di Maida è rivolta in particolare modo alla deportazione politica, che corre su un binario parallelo, ma proprio per questo autonomo, rispetto allo sterminio dell’ebraismo europeo.
Nel suo complesso il libro ci restituisce senz’altro un’importante pagina di storia associativa ma anche e soprattutto la traiettoria di donne e uomini che fecero del pudore per la propria esperienza, laddove la violazione dell’integrità dei corpi era invece la regola basilare nella logica dei campi nazisti, il punto di partenza su cui costruire un discorso collettivo sulla preservazione della dignità. Così come sulla sua ricostruzione, senza rimozioni ma anche risparmiandosi l’apologia del «martirio» che rischia di annullare la domanda di vita e di relazione che fonda ogni comunità politica che voglia essere basata sulla responsabilità e sulla reciprocità consapevoli.