Dopo una partenza piuttosto torpida, Sundance 2014 inizia a svegliarsi, ad acquistare una fisionomia. Inspiegabilmente presentato fuori concorso (nella sezione Next, e cioè quella delle «promesse», dove l’anno scorso avevano seppellito l’imperdibile Computer Chess) Listen Up Philip, il terzo film di Alex Ross Perry, nativo della Pennsylvania, trapiantato a New York dove ha studiato alla Tish School di NYU e lavorato come commesso da Kim’s video. Se la biografia sa un po’ di Tarantino, il cinema di Ross Perry è decisamente East Coast, ispirato dalle cronache brooklynesi di Noah Baumbach e Lena Dunham come da Cassavettes. Dopo Impolex (2009), The Color Wheel (2012) e un’apparizione in qualità di protagonista di La ultima pelicula di Raya Martin e Mark Peranson, Ross Perry fa quello che ha definito, dopo la proiezione, «un film che non ha nulla a che vedere con il presente» e la cui esperienza, aveva auspicato prima dell’inizio, spera si possa vivere, cover to cover, da copertina a copertina, come un libro. La letteratura fa da sfondo a Listen Up Philip, girato in 16mm e con grande inventiva dal direttore della fotografia Sean Price Williams, è romanzescamente narrato da Eric Bogosian e i suoi protagonisti sembrano privi di telefonini, tablet o dell’immancabile McAir, ma non c’è nulla di disattuale nell’idea di cinema che porta avanti. Un po’ simile al personaggio che interpretava in Rushmore, Jason Schwartzman è un giovane autore newyorkese che ha finito di scrivere un discreto secondo romanzo. La sua fidanzata fotografa (Elizabeth Moss) ha probabilmente più talento di lui, ma un quinto dell’ego. Jonathan Price è il vecchio scrittore famoso, amareggiato e sul viale del tramonto, che adotta la giovane promessa offrendogli asilo nella sua casa di campagna upstate New York, dove Philip può concentrarsi sul suo soggetto favorito, ovvero se stesso. Conversazioni iperintelligenti che nascondono solitudini devastanti, gesti di arroganza suprema dietro a cui si celano ferite interiore profonde, Listen up Philip, che ogni tanto sembra esistere nello spirito di Girls, è una commedia intricata, buffa e dolorosa di egoismi e del masochismo di tutti i giorni. Come il primo film in concorso visto qui al festival, Whiplash, è anche una parabola (semi-romantica) sulla spietatezza inevitabile della creazione artistica.

Girls è stato evocato al Sundance anche domenica pomeriggio, quando Lena Dunham è apparsa in sala insieme al cast di Happy Christmas, l’ultimo film di Joe Swanberg. Si tratta di una storia minima e minimal (come tutti i film mumblecore, il movimento di cinema indie di cui Swanberg fa parte) ambientata durante le vacanze di Natale e interpretata, oltre che da Dunham, da Anna Kendrick, Melanie Lynskey, l’attore/regista Mark Webber, dallo stesso Swanberg e da suo figlio di due anni, in cui una sorella giovane e un po’ irresponsabile (Kendrick) piomba a vivere dalla famiglia del fratello a Chicago, ma non tutta la confusione che segue viene per nuocere. Parzialmente autobiografico, quasi interamente improvvisato sulla base di un trattamento di quindici pagine, anche Happy Christmas, presentato in pellicola, è stato girato in pellicola per sfuggire, ha spiegato Swanberg presentando il film, alle tentazione di girare e montare troppo. Tra attori, registi e stilemi che tornano e/o si incontrano tra di loro, mumblecore è molto presente al Sundance di quest’anno. Chi sembra essersi decisamente lasciata indietro lo spirito easy, sciolto, improvvisatorio del movimento è Lynn Shelton, qui nella sezione anteprime con Leggies, un’implausibile commedia romantica con Kiera Knightley che si comporta stucchevolmente (e senza ragione) come una teen ager e che ci fa caldamente rimpiangere le crudezze e la temerarietà di Humpday.