«Il tempo degli alibi è fi-ni-to». Giovanni Legnini, una vita tra Pci, Pds, Ds e Pd (fino al 2014, quando è stato eletto nel Consiglio superiore della magistratura), è commissario straordinario del governo alla ricostruzione delle aree distrutte dai terremoti del 2016 e del 2017 dallo scorso San Valentino. I giorni del quarto anniversario della scossa con cui cominciò l’incubo li sta passando lungo il Cammino delle terre mutate, un percorso, da fare rigorosamente a piedi, che unisce decine di paesi tra le Marche, l’Umbria, il Lazio e l’Abruzzo. È da un albergo di Acquasanta Terme che il commissario fa il punto della situazione.

Legnini, per chi sono finiti gli alibi?

Per tutti. Sono state emanate quattordici ordinanze dal mio insediamento e ora le norme per ricostruire ci sono. Se non si partirà, vorrà dire che c’è qualcuno che ha interesse a che la ricostruzione non avvenga mai.

E lei cosa intende fare?

Da settembre starò molto meno negli uffici di Roma e di Rieti e girerò continuamente per i comuni del cratere per vedere chi lavora e come. Il cantiere normativo ormai è chiuso, mancano giusto alcuni dettagli che spero verranno definiti in breve tempo dal parlamento, ma si può partire a ricostruire già da subito. In autunno, poi, lavoreremo al testo unico della ricostruzione privata, che sarà l’ultimo e definitivo atto normativo su questa situazione. Ad ogni modo, non serve aspettare questo passaggio: è tutto già pronto, la sostanza dei provvedimenti non cambierà. Abbiamo ridisegnato le regole, ora funzionano davvero.

Sono comunque passati quattro anni dal terremoto.

Nella storia di questo paese le ricostruzioni importanti non sono mai partite prima di quattro anni. Può controllare tranquillamente e vedrà che è così. Anche a L’Aquila, la ricostruzione leggera partì subito, ma quella pesante ci ha messo esattamente quattro anni per cominciare.

Ad ogni terremoto, però, in Italia sembra sempre si debba ricominciare da capo. Manca un quadro normativo di riferimento che sia sempre quello e che venga applicato in maniera sistematica.

Ho fatto il parlamentare per dieci anni e sono stato al governo per un anno e mezzo, ho visto tante leggi sui terremoti, dalla coda di quello dell’Umbria e delle Marche del 1997 a L’Aquila, poi ovviamente anche questo del Centro Italia. È vero che se ogni volta ricominciamo da zero, non ne usciamo. Servono chiaramente un quadro normativo unico e delle procedure standardizzate, la mia speranza è che quello che stiamo facendo in questi mesi sarà preso come riferimento per fare una legge generale sulle emergenze. I nostri principi sono semplici: responsabilità e tempi certi.

E poi?
Serve anche una struttura centrale che coordini i vari processi, un dipartimento della ricostruzione, diciamo, gemello della protezione civile. Deve subentrare una struttura statale forte in grado di gestire tutto. Servono tecnici e professionisti altamente qualificati che lavorino a questo: mille, duemila persone, non so. L’importante è che siano al servizio dello Stato per le operazioni di ricostruzione dei territori che vengono colpiti dalle catastrofi naturali. Dirò di più: una parte dei fondi europei del Covid dovranno essere utilizzati per permettere a questo territorio di ripartire.

Lei parla sempre di un vulnus burocratico che sin qui ha impedito di partire sul serio con la ricostruzione. È tutto qui o c’è dell’altro? In altre parole: quanta responsabilità ha la politica nella gestione di questo terremoto e quanto chi governa le regioni paga le conseguenze della propria gestione del doposisma?

Non ritengo di poter rispondere alle domande di carattere politico. Cerco di tenermi alla giusta distanza dalle vicende elettorali, anche se chiaramente ho delle idee e credo siano abbastanza note. In questo momento, comunque, il mio ruolo è tecnico e lavoro alla ricostruzione dalle dodici alle quattordici ore al giorno.