Israele, Unione europea e Lega araba hanno fatto riferimento per giorni alla bozza egiziana di cessate il fuoco come unica possibile soluzione ai continui bombardamenti su Gaza dell’esercito israeliano: uno dei più imponenti flop diplomatici in Medio oriente. Eppure, nonostante il Cairo sia in questi giorni al centro di colloqui per una soluzione del conflitto, da una parte, la mediazione egiziana appare poco credibile perché decisamente conforme alle richieste israeliane e sorda ai dubbi avanzati da Hamas, per esempio in riferimento alla richiesta di fine dell’embargo che strozza la Striscia dal 2007. Dall’altra, a parte intellettuali e attivisti di sinistra, nonostante la brutalità del conflitto e le centinaia di bambini uccisi, non si levano voci a sostegno della causa palestinese in Egitto.

Addirittura cresce un sentimento anti-Hamas. Ma se questo può essere spiegato con i legami tra il movimento palestinese e i Fratelli musulmani, sembra ben più diffuso e profondo l’odio per tutti i palestinesi in Egitto. Quindi gli egiziani non sono solo contrari al movimento, percepito come terroristico, ma più in generale diffidano e si guardano bene dal difendere la causa palestinese, estendendo l’odio per Hamas a tutti i palestinesi.

uesto spiegherebbe anche i timidi passi che nell’anno al potere ha fatto il presidente egiziano Mohammed Morsi rispetto alla causa palestinese, tanto da renderlo, agli occhi di molti attivisti pro-Palestina, allineato ai precedenti governi. Morsi sarebbe stato incapace di denunciare le operazioni israeliane a Gaza come aggressioni e non azioni di difesa, giustificazione fondamentale ai tre attacchi sanguinari, «Piombo fuso» (2008), «Pilastro di Difesa» (2012) e «Iron Dome» (2014), addotta dall’esercito israeliano. In realtà invece la mediazione di Morsi, in questa fase, sarebbe stata utilissima per rassicurare Hamas e contenere le aspirazioni guerrafondaie di Israele.

L’odio per i palestinesi è stato instillato a grandi dosi dai presidenti egiziani sin dai tempi di Anwar al-Sadat. Sin dalla firma del Trattato di pace con Israele (1979), nei discorsi pubblici e dei media, la frammentata, debole ma motivata a non scomparire, Palestina è stata accantonata e mal raccontata, mentre Israele è stato descritto come l’amico, l’alleato, lo stato forte dal quale non si sarebbe potuto prescindere per il benessere del paese. Con l’assassinio di Sadat da parte di estremisti islamici nel 1981 e l’avvento del presidente Hosni Mubarak, l’odio per i palestinesi è stata una costante del regime per cementare le relazioni con Israele e il ruolo centrale del Cairo, principale alleato degli Stati uniti in Medio oriente.

Da quel momento, l’odio per i palestinesi ha assunto una forma di razzismo strisciante per cui le morti a Gaza e in Cisgiordania, le richieste di un negoziato equo con Israele che superassero la «bantustanizzazione» attuale dell’area, hanno iniziato ad essere viste con maggiore diffidenza dagli egiziani. E così dal 2000, l’odio per i palestinesi ha assunto la forma del rigetto delle richieste di Hamas per i legami tra il movimento palestinese e i Fratelli musulmani. Questa accresciuta idiosincrasia per la questione palestinese è stata esacerbata con il colpo di stato del 2013, che ha rovesciato il governo, democraticamente eletto, dei Fratelli musulmani. In quel momento gli islamisti sono stati divisi tra «buoni» e «cattivi». I secondi, contrari al ritorno dei militari in politica, sono stati etichettati tutti come terroristi. Per questo, se la maggioranza degli egiziani, che crede nei media pubblici, non ha speso una parola per le migliaia di morti di islamisti, causate dall’esercito nella strage di Rabaa el Adaweya e fino a oggi, né ha pianto una lacrima per le decine di bambini delle scuole coraniche, uccisi dall’esercito in nome della «lotta al terrorismo», chi si meraviglia che nessun egiziano (o pochissimi) protesti contro gli attacchi in corso a Gaza? Anzi, nessuno si meraviglia che la maggioranza degli egiziani patteggi per Israele e continui a odiare i palestinesi.

Questo ha anche conseguenze pratiche gravissime. Prima di tutto la fasulla riapertura del valico di Rafah che resta chiuso per timori di nuovi flussi di armi e «terroristi» nel Sinai, nonostante le centinaia di feriti palestinesi in attesa al confine. E in secondo luogo, il modello (soprattutto mediatico) che Sisi rappresenta per l’esercito israeliano nella repressione degli islamisti. I media israeliani mostrano estratti della televisione pubblica egiziana che stigmatizza la reazione di Hamas. Ne sono la prova poi gli attacchi agli uffici della televisione del Qatar al Jazeera a Gaza, all’undicesimo piano di Burj el Jalaq. Lo stesso aveva fatto l’esercito egiziano con i locali uffici di al Jazeera al Cairo nell’estate scorsa, costringendo l’emittente a chiudere le trasmissioni dall’Egitto mentre i suoi giornalisti sono stati minacciati, arrestati e alcuni di loro condannati a sette anni di reclusione.

Ma per mettere a tacere i sensi di colpa, il presidente Sisi ha detto in un discorso per l’anniversario (23 luglio) della rivoluzione del 1952 che «100mila egiziani sono morti per il problema palestinese». Il fallimento del negoziato mostra l’incompetenza dell’élite militare nella gestione della crisi. Se i Fratelli musulmani sono stati accusati di gestire il paese negli interessi del movimento, è invece l’esercito a guidare l’Egitto come se si trattasse di una caserma.