È sincero amore? Se lo domandano tanti a Gaza osservando l’inedita preoccupazione che il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi mostra per le sorti del piccolo territorio palestinese teatro il mese scorso della quarta grande offensiva militare israeliana in 13 anni. E non è passato inosservato il clima cordiale che El Sisi ha instaurato con Hamas che pure, non molto tempo fa, considerava un’organizzazione ostile e pericolosa perché alleata dei suoi nemici, i Fratelli musulmani. Il raìs egiziano ha promesso 500 milioni per la ricostruzione di Gaza e venerdì scorso dozzine di bulldozer, gru e autocarri – con a bordo operai ed ingegneri egiziani – sono stati accolti con canti, applausi e sventolio di bandiere al loro ingresso a Gaza volto a rimuovere le macerie di case ed edifici distrutti dall’aviazione israeliana. Infine, c’è il ritorno a Gaza dopo 8 anni di una troupe della televisione di stato egiziana. Un cambio di rotta che ha portato alcuni palestinesi a credere che l’Egitto voglia in qualche modo tornare ad «amministrare» l’enclave costiera che ha governato militarmente tra il 1948 e il 1967.

Non è quella l’intenzione di El Sisi che a Gaza è intervenuto per interesse e non per «amore» dei palestinesi. «L’Egitto è impegnato a ricostruire la sua posizione regionale» ci spiega l’analista Mukrair Abu Saada, docente di scienze politiche all’Università Al Azhar di Gaza city – e ha compreso che la sua mediazione tra Hamas e Israele e tra le varie fazioni palestinesi può aiutarlo e dargli anche più peso a Washington. L’Amministrazione Biden si aspetta dai suoi alleati arabi un impegno maggiore per la stabilità regionale». Abu Saada ricorda che i rapporti tra Hamas ed Il Cairo avevano già avuto un miglioramento dopo l’elezione nel 2017 di Yahya Sinwar a capo del movimento islamico a Gaza. «Sinwar – aggiunge l’analista – garantì il massimo dell’impegno per impedire ai jihadisti nel Sinai di trovare rifugio a Gaza. L’Egitto in cambio aprì più spesso il terminal di confine di Rafah ai movimenti dei civili palestinesi. Ora siamo davanti a uno sviluppo non atteso, almeno non in questi termini».

Abu Saada, come altri, pensa che il protagonismo di El Sisi sia mirato anche a contenere il ruolo del Qatar a Gaza. Non sono ancora state superate le scorie dello scontro che per più di tre anni, fino alla «riconciliazione» avvenuta all’inizio del 2021, ha contrapposto Doha alla «Nato araba» (Arabia saudita, Bahrain, Emirati, Egitto e in misura minore la Giordania). Il Cairo e i suoi alleati non hanno mai digerito il sostegno dato ad Hamas dal Qatar che in nove anni ha investito a Gaza 1,4 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali e donazioni ai poveri. Un’operazione di contenimento che da qualche settimana ha l’ok israeliano. Tel Aviv negli ultimi anni ha contato sui soldi del Qatar per tenere in vita una Gaza moribonda a causa del blocco che attua dal 2007. Ora governo e comandi militari e di intelligence si dicono «profondamente delusi» da Doha che, affermano, con i suoi fondi ha rafforzato Hamas a Gaza e non ha impedito che lo scorso 10 maggio, l’ala militare del movimento islamista lanciasse razzi verso Gerusalemme.

La gente di Gaza non ha tempo per la geopolitica. Ha ben altri problemi da affrontare da quando è scattato il cessate il fuoco con Israele il 21 maggio. «Perché (l’Egitto) ha mandato ruspe e camion a Gaza? Ne abbiamo qui, non ci mancano. Le imprese locali avevano l’occasione di lavorare e di dare pane a tante famiglie. Invece a guadagnare sono gli operai e gli ingegneri egiziani. La ricostruzione dobbiamo realizzarla noi palestinesi», protesta Samir H., un piccolo imprenditore che ci chiede di non rivelare la sua piena identità. «I 500 milioni che promette El Sisi» afferma «sono degli Emirati non dell’Egitto». Hamas, aggiungono altri, sa come vanno le cose ma tace perché considera centrale per la sua vocazione strategica avere buone relazioni con Il Cairo.