Indagini chiuse, la questione è politica. La procura generale egiziana chiude il fascicolo su Giulio Regeni. A riferirlo al giornale al Masry al Youm sono fonti giudiziarie che riportano di un colloquio tra il procuratore generale Sadeq e il suo vice Suleiman, capo della delegazione venuta in Italia: «Le nostre indagini si fermano qui, il caso Regeni è ora una questione diplomatica. Continueremo il lavoro investigativo solo se dovessero emergere nuovi elementi utili».

Una totale chiusura che va a braccetto con la conversazione di domenica tra il ministro degli Esteri italiano Gentiloni e la controparte: il ministro Shoukry ha espresso «irritazione per la piega politica» che Roma ha scelto. Per Il Cairo l’omicidio di Regeni va trattato a livello politico, non investigativo, posizione che non solo minaccia future collaborazioni, ma che tenta di spostare le responsabilità sull’Italia.

Ieri il portavoce del Ministero degli Esteri, Ahmed Abu Zeid, imputava il richiamo dell’ambasciatore a questioni interne italiane, dal caso Guidi alle pressioni delle opposizioni, che avrebbero costretto Roma a «politicizzare il dossier».

Il chiaro tentativo di nascondere le responsabilità dello Stato sotto il tappeto, però, serve a poco. Un regime disfunzionale, diviso tra poteri rivali e oligopoli, non mette a tacere ogni voce. Le indiscrezioni continuano ad uscire, così come le falle nel sistema della repressione. Ne è esempio la famiglia di Tareq Abdel Fattah, capo della presunta banda di criminali a cui Il Cairo ha provato goffamente ad addossare la colpa della morte di Giulio.

All’Agenzia Nova fonti della procura di Giza hanno riportato di intimidazioni contro i familiari di Tareq perché non muovessero azioni legali contro il Ministero degli Interni. Gli Abdel Fattah chiedevano un risarcimento per l’uccisione dei loro cari nella sparatoria chiaramente architettata dalla polizia. In risposta hanno avuto minacce, ovvero l’avvio di azioni legali per furto e tossicodipendenza, presunti reati commessi in passato.

Dietro sta un insabbiamento mal riuscito e smentito dai fatti: la gang, definita dalla polizia come altamente specializzata in rapine e truffe, non sarebbe altro che un gruppo di piccoli malviventi, che mai avrebbero potuto architettare un simile crimine, senza alcuno scopo. E sono stati messi a tacere con la violenza. La sorella di Abdel Fattah lo ripete: «Se fossero stati criminali perché la polizia li ha uccisi invece di perseguirli? E le armi che la polizia dice che avevano, dove sono?».

Il Cairo non ha il controllo della situazione. A ricordarlo sono ancora delle famiglie, quelle dei 42 giornalisti egiziani tuttora in prigione. Da domenica hanno lanciato un sit-in di fronte alla sede del sindacato della stampa per ottenere il rilascio dei propri cari, molti dietro le sbarre da tre anni. Lì rischia di finire anche il segretario del sindacato, Khaled al-Balshy, accusato di incitazione al golpe e su cui pesa da qualche giorno un mandato d’arresto. E lì da mille giorni si trova il reporter Mahmoud Abu Zeid, per la cui liberazione è scesa in campo anche la famiglia Regeni: è stato arrestato un mese dopo il golpe alla manifestazione dei Fratelli Musulmani a Rabaa al-Adawiya, che copriva per lavoro e che si concluse con un massacro, tra 600 e 700 morti.

Secondo il sindacato nel 2015 sono state 782 le violazioni della libertà di stampa: censure di articoli, chiusure di giornali, perquisizioni. Si sfiora poi il ridicolo, tipico di ogni dittatura, quando in tribunale finisce un pupazzo: il 26 giugno la popolare Abla Fahita, pupazzo nello stile Muppet protagonista di uno show satirico sulla Cbs, dovrà rispondere di “violazione della moralità pubblica”. La sua colpa è di essere una voce critica, di mettere in ridicolo la macchina della repressione.

E con l’Italia che promette nuove misure contro l’Egitto, tra i due litiganti si infila l’Unione Europea. L’Alto Rappresentante agli Affari Esteri Ue, Federica Mogherini, ha assicurato a Roma di voler «sostenere gli sforzi per ottenere la verità». Per questo ieri una delegazione di 13 parlamentari egiziani è volata a Bruxelles (secondo Daily News Egypt passando prima per Roma) con l’obiettivo di discutere della risoluzione europea che condanna l’omicidio di Giulio e rispondere alle impellenti questioni sugli abusi dei diritti umani.

Ma di fronte ad al-Sisi rischia di presentarsi un’Europa divisa: mentre l’Italia usa come piede di porco i rapporti commerciali con l’alleato nordafricano, la Francia ne approfitta per trarne vantaggio personale. Lunedì prossimo il presidente Hollande volerà al Cairo per firmare 30 accordi commerciali e finanziari e 10 memorandum di intesa in campo energetico e turistico. Gli stessi settori su cui l’Italia punta per costringere l’Egitto a collaborare.

Al fianco di Hollande ci saranno 60 uomini di affari francesi che sperano di incrementare gli scambi commerciali, dal valore attuale di 2.5 miliardi di euro l’anno. Non mancano, ovviamente, le armi: tra gli accordi anche la vendita di aerei, navi e un sistema di comunicazione satellitare per un miliardo di euro.