Polizia, esercito e manifestanti si affrontano davanti alla sede della Lega (Lnd) di Yangon mentre a Mandalay la folla si stinge attorno alla sede centrale della Banca centrale del Myanmar.

È il decimo giorno di protesta e la gente è ancora in piazza. Nell’ex capitale servono a poco le barricate erette dai poliziotti di fianco all’ingresso del partito di Suu Kyi per impedire che la gente faccia pressione: la folla si raccoglie sui due lati e cominciano a volare parole grosse.

Riesce a mediare un avvocato della Lega che placa gli animi mentre polizia ed esercito se ne vanno senza aver arrestato nessuno. La gente esulta e si disperde. A Mandalay va peggio: si spara, anche se proiettili di gomma. «Molti feriti», ci racconta una fonte locale.

Nel tira e molla che contraddistingue le giornate convulse che dall’1 febbraio vedono agire un vastissimo movimento di disobbedienza civile, tutto si gioca su un doppio registro: apparente ricorso alla legalità – ripristinando leggi che consentano l’arresto senza mandato o montando la farsa del processo alla Lady che dovrebbe andare alla sbarra mercoledì – e un’intensa guerra psicologica ma senza ricorrere a maniere troppo forti.

Maniere forti che si temeva sarebbero iniziate già ieri dopo che il week end aveva visto ampi movimenti di truppa: militari che andrebbero a sostituire la polizia.

La guerra psicologica sembra ricalcare il copione del 1988 quando i militari sfruttarono bande di malviventi per creare disordini e avere poi l’alibi per intervenire.

Nel fine settimane in molti quartieri si sono organizzate ronde di civili armati di bastoni per isolare personaggi equivoci che potrebbero essere stati assoldati tra i 23mila carcerati liberati dalla giunta nei giorni scorsi. Sia per svuotare le carceri (dove sono ora rinchiusi circa 400 dissidenti politici) sia per servirsi di alcuni di loro per creare un clima di tensione e paura che possa facilmente portare a incidenti e quindi all’intervento militare.

Il Consiglio amministrativo di Stato, come la giunta si fa chiamare, ha intanto sospeso la legge che tutela la privacy ma gli arresti sono ancora relativamente pochi e molti vengono fermati e rilasciati.

Sta preparando una nuova legge sulla cyber-sicurezza con il compito di gestire su nuove basi legali i social network e la diffusione di Internet, ma alterna blackout (ieri di otto ore) a fasce orarie che ne permettono l’utilizzo. Fa pressione su chi sciopera e minaccia 20 anni di prigione a chi protesta ma sembra ancora tenere il freno tirato.

La situazione internazionale non l’aiuta. E la Cina, che con la Russia continua a chiamare il caso «un affare interno», si è vista ieri l’ambasciata circondata di gente e cartelli minacciosi.

Ha anche dovuto smentire di star aiutando il regime a costruire firewall sul web per bloccare la linea o accedere ai dati personali e ha dovuto giurare che i cinque cargo arrivati a Yangon dallo Yunnan settimana scorsa trasportavano solo derrate alimentari e non soldati come si dice (con foto) sui social.

E mentre gli Stati uniti hanno già varato sanzioni economiche e una dozzina di ambasciate hanno pubblicato l’ennesima condanna preventiva su nuove violenze, il segretario generale dell’Onu António Guterres ha invitato i militari e la polizia del Myanmar a garantire il diritto di riunione pacifica.

Più dura la vice Alta commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani Nada al-Nashif, secondo cui la mancanza di azione sulle violazioni pregresse ha incoraggiato i militari contribuendo alla crisi attuale.

È un quadro in movimento in cui si fa strada l’ipotesi anche di una frattura interna nel forse non così monolitico pianeta in divisa. Si sarebbe fatto da parte il generale Sein Win, ministro della Difesa del governo di Aung San Suu Kyi ma uomo dei militari in quanto a capo di uno dei tre dicasteri che per legge andavano a loro. Se la notizia sarà confermata sarebbe la prima crepa evidente tra falchi e colombe.