«A me non va di scrivere in codice. Fin da La tregua mi sono proposto un linguaggio più chiaro possibile, nella speranza che l’informazione non arrivi degradata al lettore . Per questo m’impongo la massima chiarezza, oltre che il minimo ingombro. Per questo ho accettato anche di parlargli a voce. Incontrarlo, spiegarmi con lui, mi fa piacere». Il brano è tratto da un’intervista a Primo Levi del 1976 (a cura di Gabriella Poli), in cui lo scrittore spiega l’equilibrio del proprio stile come il risultato di un incontro – voluto, anzi autoimposto – con il lettore. La misura espressiva e il ritegno formale, cioè, sono paradossalmente legati alla necessaria esposizione di sé: non come io privato, certo, ma come voce ragionante. È anche per questo che le numerose interviste concesse da Levi, tra l’inizio degli anni sessanta e il 1987 (l’anno della sua morte), sono da considerare a pieno titolo come parte della sua opera. In tale veste si presentano infatti nel terzo volume che conclude l’edizione delle Opere complete, a cura di Marco Belpoliti (Einaudi, pp. XXXVI-1348, euro 85,00). Una raccolta di Conversazioni e interviste 1963-1987 aveva già visto la luce nel ’97, presso lo stesso editore e già a cura di Belpoliti; si trattava, in quel caso, di 34 interviste su 270 censite all’epoca. Il nuovo volume ne include ben 143 (quasi la metà delle 300 note fino a oggi), divise in tre sezioni: le interviste pubblicate vivente Levi, quelle uscite postume e una serie di Dichiarazioni e deposizioni, rilasciate al ritorno dal campo di sterminio e in occasione dei processi a Höss, Eichmann, Bosshammer, già presenti nel volume di testimonianze Così fu Auschwitz (2015). Gli apparati, a cura del Centro Internazionale di Studi Primo Levi, contengono la bibliografia degli scritti, delle traduzioni e delle conversazioni dell’autore, nonché gli indici – relativi all’intera edizione delle Opere complete – dei nomi di persona e personaggio, dei luoghi, delle opere a stampa e dei passi citati, che disegnano una mappa utilissima per misurare l’ampiezza dei riferimenti letterari di Levi.
Seguire l’evoluzione della carriera
I testi sono disposti in base al mese e all’anno di pubblicazione (o di messa in onda, per quelli radiofonici e televisivi), diversamente da quanto accadeva nel volume del ’97, organizzato secondo un criterio tematico. La successione cronologica permette, da un lato, di seguire l’evoluzione della carriera letteraria di Levi, perché al centro delle interviste tendono a risaltare, di volta in volta, i suoi libri più recenti; dall’altro, di seguire il consolidamento del ruolo di Levi come intellettuale sempre più autorevole, consultato su questioni etiche, civili e sociali più ancora che letterarie. I testi compongono così, nel loro complesso, una sorta di commento continuato, su due piani: quello della riflessione storica e metaletteraria sui temi dei libri leviani; e quello delle vicende culturali, storiche e politiche italiane e internazionali.
Nelle interviste più antiche, gli interlocutori non mancano di sottolineare l’aspetto discreto e a volte il fisico minuto di Levi, come se percepissero il contrasto con la gravità dell’esperienza e l’altezza della testimonianza resa nei suoi libri, e si sentissero in dovere di garantire l’importanza dell’autore. È la metà degli anni sessanta; Levi, che ha appena pubblicato La tregua, rivelerà di lì a poco anche la sua vena fantastica con i racconti di Storie naturali e poi di Vizio di forma. Molte interviste di quel periodo chiamano lo scrittore a rispondere del rapporto tra testimonianza e invenzione; nasce così l’immagine del ‘centauro’ (già personaggio di una celebre ‘storia naturale’), che Levi si attribuisce come emblema di una doppia natura professionale (chimico e narratore) e identitaria (ebreo e italiano).
Più tardi, divenuto ormai scrittore a tempo pieno, Levi lascerà da parte questo tema, senza però rinunciarvi del tutto: nell’intervista a Giorgio Martellini del 1984, potrà ancora affermare di sentirsi «doppio, ibrido, bifido». Eppure, a quella data, Levi era già da alcuni anni autore di libri non testimoniali e di veri e propri romanzi. Nel ’78 era uscito La chiave a stella, che gli aveva dato occasione di riflettere sia sul rapporto tra cultura tecnica e cultura umanistica (in «sorda polemica», dice l’autore, con i letterati «irresponsabili nei confronti dei loro “prodotti”»), sia sugli aspetti qualificanti del lavoro: una visione, questa, che aveva attirato sul libro l’attenzione (e in certi casi le critiche) del mondo sindacale e operaio. Nel 1982, il grande successo di Se non ora, quando?, che racconta le vicende di un gruppo di partigiani ebrei polacchi e russi durante la guerra, coincide con l’invasione del Libano da parte di Israele, atto contro il quale Levi prende apertamente posizione. L’attualità viene così inevitabilmente a incrociarsi con il tema del romanzo. «Il libro è caduto male politicamente» dichiara lo scrittore in un’intervista dell’83 a Paola Lucarini «perché ha preteso di dimostrare che gli ebrei sanno difendersi in un momento in cui lo dimostrano ad abundantiam coi fatti».
L’interesse di queste conversazioni non risiede però solo nella funzione di commento e riflessione sulle circostanze e le idee che hanno più o meno direttamente influenzato la scrittura di Levi. Le interviste, cioè, non valgono solo come conferma, a un livello diverso ma parallelo, dei temi sperimentati dall’autore nei suoi libri. In certi casi, la voce del testimone-intervistato può assumere toni diversi da quella del testimone-scrittore, arrivando a pronunciare frasi stranianti (e per questo particolarmente notevoli): «ad Auschwitz» dichiara Levi in un’intervista per la Repubblica del 1979 «venni a contatto con un mondo che ignoravo, il mondo degli ebrei orientali . Può sembrare presuntuoso dirlo, ma io mi sono divertito, a trovarmi intorno dei personaggi così incredibili». Qualche anno dopo, nel 1984, in un’intervista a Marco Vigevani dirà che, nel rievocare l’esperienza del Lager, la «cosa più difficile da rendere era appunto la “noia”, la noia totale, la monotonia». Divertimento e noia: due stati d’animo che difficilmente assoceremmo ad Auschwitz, e che possono stupire, forse perfino scandalizzare, proprio per l’umanità che esprimono. Umanità dell’esperienza e umanità del ricordo.
Porro, Cavaglion, Valabrega
Ciò che i migliori studi recenti su Levi stanno mostrando riguarda proprio la complessità delle prospettive che s’incontrano nella sua opera, la capacità, conservata ancora dai suoi scritti, di contraddire gli stereotipi e smarginare le oleografie. Proprio contro gli stereotipi è orientata l’ultima opera di Levi, I sommersi e i salvati, motivata come queste interviste dalla necessità del dialogo, del confronto e del chiarimento. Tra l’uscita dei primi due volumi delle Opere complete (ne ho parlato in «Alias D» del 22 gennaio 2017) e il terzo, sono molti i lavori che hanno rinnovato l’immagine di Levi (si veda «Alias D», 24 dicembre ’17). Qui occorre accennare ad altri due libri recenti, cioè il profilo dedicato all’autore da Mario Porro, Primo Levi (il Mulino, pp. 192, euro 16,00) e il nono volume della serie «Lezioni Primo Levi», scritto da Alberto Cavaglion e Paola Valabrega, «Fioca e un po’ profana» La voce del sacro in Primo Levi / “Feeble and a Bit Profane”. The Voice of the Sacred in Primo Levi (Einaudi, pp. 212, euro 20,00). Nella sintesi di Porro, l’esigenza didascalica si concilia con lo scorcio originale su testi e questioni cruciali, illustrati attraverso confronti inattesi. Così, per esempio, il riferimento al Freud di Al di là del principio di piacere serve a Porro per cogliere, nel «ricorrere insistito del sogno nelle notti di tanti reduci», la pulsione di morte della coazione a ripetere: un principio utile anche per interpretare la struttura stessa di un libro come La tregua. Cavaglion e Valabrega, dal canto loro, seguono le tracce del sacro disseminate nella sua opera da un Levi reticente o appunto «profano», che tuttavia non può impedirsi di far emergere dubbi e domande che oltrepassano la dimensione razionale, come l’«intuizione di un attimo» che affiora nel capitolo «Il canto di Ulisse» di Se questo è un uomo, «forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui». Anche in questo senso Levi è un centauro: «chimico e scrittore, razionalista e poeta», come si definiva nell’intervista del 1984, ma anche laico e a suo modo ‘religioso’.